Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi…
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi, anzi, evidentemente l’età rende matti anche i migliori.
Vi faccio un esempio: mio padre.
Mio padre è letteralmente mitico. È un grande druido. Forse è meglio dire “era”.
Sì, perché dopo una vita di sacrifici, tramite i quali ha raggiunto l’apice della conoscenza e del potere, proprio mentre poteva restare assiso sul trono della saggezza… ha buttato tutto all’aria.
Ha rinunciato a tutto ciò che è sempre stato, ciò per cui era nato.
Tutte le volte che lo vedo in meditazione di fianco al ruscello osservo i lunghi capelli bianchi e il suo portamento nobile e penso che la vita è proprio uno scherzo di pessimo gusto.
Io, sua erede, unica figlia, merito quanto lui la gloria, mentre, come tutti gli Dei caduti, resto reietta ed esiliata, un pericolo temuto e allontanato anziché un’onorata paladina divina.
Gliel’ho detto mille volte, altrettante ho chiesto di partire insieme, alla riconquista di ciò che ci appartiene da sempre. So che da giovane sarebbe stato il primo ad aggrapparsi al bastone del potere, ma ora… ora mi scruta con quegli occhi grigi, che hanno guardato dentro gli Abissi, e risponde: “Perché farlo? Io ho tutto ciò che desidero.”
Mi viene un nervoso… Quei suoi capelli bianchi non lo faranno redimere finché gli adorneranno il capo, come un soffice e liscio velo.
Come si può non desiderare più altro? Ogni cima guadagnata è base per la scalata successiva, mentre lui… lui ha deciso che gli basterà questo panorama per il resto della vita. È incomprensibile per me, qualunque meraviglia abbia raggiunto.
Ma ve lo dirò, ciò che lo ha spogliato dell’anima da combattente è stata la malattia, il malanno più grave in cui l’uomo può incappare: l’Amore.
Io cerco di aprire i suoi occhi: quella vecchiarella che gli prepara un mesto pranzo non merita la sua rinuncia alla grandezza. Hanno avuto una lunga storia d’amore, ormai l’ha conosciuta, ha visitato tutti i luoghi dove poteva portarlo… È il momento di rinsavire.
E invece no, come assuefatto ogni giorno vuole una dose maggiore di lei. Ogni parola stimola il suo massimo interesse, ogni sorriso spalanca intimi e ardenti ricordi.
Padre, padre, perché mi hai abbandonata?
Lo adoro, ma questa anzianità che l’ha rattrappito nella volontà mi disgusta; talvolta lo detesto. Bastava un suo sguardo per fermare un esercito, ed ora neanche una pecora arretra davanti a lui.
I vecchi: stanchi della vita, fanno di tutto per non scegliere. Si accontentano piuttosto che mettersi in gioco per i loro ideali.
“Non cambiare è una scelta. L’amore è ogni istante una decisione. Mi sono dovuti venire i capelli bianchi per trovarlo e ora che l’ho assaporato, ora che ho visto tanto di tutto ciò che la vita può darmi, io penso che nulla sia altrettanto ricco.
Tu sei giovane e vuoi il rosso rumore, cerchi le conferme degli altri, la loro approvazione, perfino la devozione. Ma il potere che desideri ti ghermirà, e ne sarai schiava, perché esisterai in relazione agli altri. Guidare un popolo significa votarsi a lui. Io ho dato tanto, prosciugandomi. Nessuno poteva curarmi. Avevo potere su tutti, ma non su me stesso. Tutto questo non è gloria, ma distrazione.
L’amore è il vero atto di coraggio. La più alta forma d’insubordinazione. Lo spogliarsi di sé per l’altro la conquista più ardita. Un cammino alla pari, dove ogni giorno affronti la tua limitatezza di uomo.
Nel silenzio c’è ogni suono, come nel bianco ogni colore, e nell’amore io vivo ogni emozione.
Un giorno avrai i capelli bianchi anche tu e ricorderai le mie parole: la vita si misura in emozioni. Il valore di un’esistenza è l’ammontare di Amore in essa contenuta. Ti amo, figlia mia.”
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi. Mario Benni vide recapitarsi da un fattorino un pacco dalla Cina. In quel pacco c’era un quaderno, scritto di proprio pugno da un suo caro amico di università. In quel libro c’era scritta la storia della ricerca scientifica del Dottor Liang Cheng. Mario Benni è il primario di cardiochirurgia al policlinico Gemelli e proprio in quel periodo aveva smesso la sua attività di cardiologo per dar manforte ai suoi colleghi del Pronto Soccorso. Da diversi giorni quel Pronto Soccorso riceveva numerose richieste di intervento da persone in piena crisi respiratoria. Arrivavano orde di persone con febbre alta che riuscivano a fatica a respirare, persone che morivano inesorabilmente. Quei pazienti appena venivano intubati e collegati alle bombole di ossigeno morivano dopo poco, i loro polmoni venivano letteralmente sfiammati dall’interno, i medici erano difronte ad una malattia mai vista prima. Sono giorni concitati per tutto il reparto ospedaliero e le notizie che arrivavano dalle altre città non erano affatto buone, anch’esse era alle prese con gli stessi casi di pazienti che morivano come mosche. Era scoppiata una pandemia che in poche settimane divenne mondiale, anche gli altri paesi del resto del mondo erano succubi delle stesse strane morti, tutti avevano gli stessi sintomi e le persone più colpite erano anziane. Mario era divorziato senza figli e sua madre era vedova,dopo qualche giorno, chiamò sua madre a vivere con lui, secondo Mario stava accadendo qualcosa di molto strano nel mondo e volle avere sua madre vicino al sicuro. Sua madre Clotilde Rossi era una virologa in pensione da anni e riconobbe quasi subito le impronte di un virus letale sulla pelle di quella povera gente morta, tra lo stupore del mondo che non riusciva a darsi una spiegazione. Clotilde si trasferì a casa sua di suo figlio, ai parioli, stava rintanata in casa in preda alla paura di essere contagiata da quella violenta malattia, girovagava per casa senza aver nulla da fare, seguiva i Tg alla Tv ma dopo qualche minuto sentiva il bisogno di spegnerla, le notizie che uscivano da quella scatola erano terrificanti ed insopportabili anche per lei. Clotilde non conosceva Liang prima di quel giorno, il giorno in cui il Dottor Cheng si presentò a lei grazie a quelle righe scritte a mano su quel quaderno. Clotilde poté leggere così le intuizioni di quel giovane ricercatore scientifico, in quel quaderno Liang ipotizzava formule chimiche e procedimenti di laboratorio in grado di isolare un virus chiamato Covid-19. Liang aveva descritto con dovizia di particolari gli effetti collaterali che mostravano quelle povere cavie da laboratorio, gli stessi identici sintomi che accusavano le persone infette prima di morire. Gli studi del Dottor Cheng dimostravano che estrapolando il DNA di quel virus e trattandolo con il famoso virus dello scimpanzé, si otteneva un vaccino in grado di aumentare le difese immunitarie e creare anticorpi in grado di annientare gli attacchi di quel maledetto Covid-19. Praticamente la Dottoressa Clotilde Rossi si trovò difronte ad un miracolo, in quel quaderno era contenuta la composizione chimica del vaccino che avrebbe debellato quel virus che stava causando una delle pandemie più gravi della storia. Clotilde stringeva nelle sue mani quei fogli con il cuore le batteva a mille, il dubbio di trovarsi difronte alla causa dei suoi guai non le venne affatto. Appena Mario rincasò dall’ospedale Clotilde gli disse di aver letto quel quaderno arrivato dalla Cina, Mario cercò di calmarla ma Clotilde era euforica, dopo anni di pensionamento poteva finalmente rivivere le gioie del suo lavoro, lei che amava il suo lavoro e il solo pensiero di poter tornare utile per una ricerca scientifica così importante la fece tornare ragazzina. Il giorno dopo Clotilde Rossi fece leggere il quaderno a Lawrence Erhardt, non poteva immaginare che stesse parlando proprio con il fautore della pandemia. Lawrence le offrì un bicchiere d’acqua per calmarsi, Clotilde avvertì il sapore del veleno al suo interno, ma era ormai troppo tardi. Clotilde fissò gli occhi di Lawrence sentendosi tradita, lei che non sapeva quanta malvagità potesse scorrere nelle vene degli esseri umani.
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi. Il Tempo, tuttavia, gli conferisce, spesso, una saggezza sconosciuta anche ai più impavidi e innamorati. Mio nonno, che da sempre amava i racconti greci, soleva narrarci la vicenda di Orfeo ed Euridice, per farci comprendere come, la scelta giusta, non sia per forza, quella che appare più spontanea. Iniziava sempre con un sospiro, scostando il suo ciuffo di capelli brizzolati. “Ragazzi sappiate che la breve vita di Euridice fu recisa dal morso di un serpente. Orfeo, il suo amato sposo, errava desolato nella disperazione della perdita subita, quando gli apparvero due donne: una dall’aspetto gelido, l’altra con sembianze cangianti. Quest’ultima gli si rivolse: «Orfeo, vieni con me, questo è il tempo del coraggio. Il mio nome è Prima Volta. Sono l’azzardo, nemico delle probabilità e dei conti, sono l’avventura. Vedi quell’antro buio? Per quella via ti accompagnerò nell’Ade, se vorrai riprendere Euridice». Anche l’altra parlò: «Non andare, Orfeo. Io sono Nessuna Volta. Non osare oltre il lecito: le conseguenze sarebbero terribili. Non farlo». Turbato, Orfeo guardò entrambe le donne ma poi si lasciò guidare dal filo della prima ed entrò nella grotta che portava al regno dei morti. Entrambe lo seguirono. Orfeo, giunto al cospetto di Ade e Persefone, chiese indietro Euridice. Intonò un canto struggente come un tramonto acceso di stelle. A tale melodia, persino l’aquila di Prometeo si distolse dal crudele pasto al ricordo dei compagni di nido. Le terribili Furie piansero, mentre gli alberi anneriti da stagioni dolenti si protendevano in ascolto. Il Dio degli inferi, commosso per l’improvvisa memoria di emozioni così rare nel suo regno, puntò lo scettro verso la donna dallo sguardo gelido. Ed ella disse: «Orfeo, questo è il tempo dell’ubbidienza. Io che sono Nessuna Volta, ti libererò dal fardello delle scelte e delle responsabilità. Governerò i tuoi pensieri. Sarò la regola e non mi metterai in discussione. Potrai ricondurre Euridice tra i vivi, ma andrai avanti da solo e lungo il cammino non ti volgerai mai verso la tua sposa, o la perderai ancora». Orfeo accettò. Sulla strada del ritorno egli era preda dal tormento: e se Ade avesse voluto vendicarsi con un trucco? Perché non udiva né il respiro né il passo alle sue spalle di Euridice? Il dubbioso Orfeo sentì dentro sé una responsabilità troppo incombente per la sua età. Quanto avrebbe voluto che tutto ciò gli fosse capitato in età vetusta, per esser certo delle proprie scelte. Fu raggiunto dalla donna cangiante: «Guardami. Io sono Seconda Volta. La ripetizione, il ritmo. Sono il segno della volontà, del dubbio. Io posso essere armonia, ma anche incertezza. E tu hai bisogno di conferme, lo vedo. Voltati, Orfeo. E’ questo che vi rende umani, facendovi amare gli altri – di cui avete bisogno, tutti – e non la fredda e morta perfezione. Io sono la vita, la ricerca famelica di continuità, lo spazio di incessante domanda tra un battito del cuore e il successivo» Il nonno si congedò un attimo dal terminare il racconto. Sembrava fosse lui, Orfeo, divenuto vecchio ma consapevole: “Orfeo, colto dall’incertezza della gioventù, si voltò. Galeotto fu il gesto. E Seconda Volta diventò Ultima Volta.” ci disse il nonno con rammarico. “Non sempre l’avanzare dell’età porta alle scelte migliori. Io, ancor oggi, mi sarei voltato, come fece Orfeo, in quanto animato dalle mie umane emozioni e timori.” Nessuna Volta rise con sprezzo ma Ultima Volta chiamò suo figlio, Ricordo.
E Ricordo cominciò a cantare della passione che sfida la morte, grazie alla follia della gioventù che Orfeo non osò perseguire, perché sì, Euridice era proprio dietro a lui. “Ragazzi miei- concluse il nonno- non è il Tempo a scegliere la strada giusta da intraprendere, ma la nostra caparbietà e fiducia. Non cedete, come fece Orfeo, e tanti dopo di lui, al misero abbraccio del Ricordo. Abbiate fiducia nelle vostre capacità e nei vostri azzardi. Solo così avrete una storia che valga la pena di essere raccontata.
“Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi…” E’ questo che pensa, eh, micio, guardando ‘sto quarantenne canuto che se ne sta come un bamba davanti a vossignoria? Sa chi sono, vero? No? Allora permetta che mi presenti: Luca Daelli, per servirla, scrittore. No, scrittore è limitato. Macchina da scrivere, allora, come mi definisce la critica dotta con malcelata ironia? Non mi piace, ma mi descrive; però anche la critica deve ammettere che i racconti che sforno al ritmo di due ogni tre mesi “Sembrano capaci di toccare corde misteriose, comuni a tutti, uomini e donne, giovani e anziani, letterati e no” E ciò che più colpisce i lettori non è la trama, spesso assolutamente esile (per esempio ne La luna ha gli occhi profondi si parla di una donna che mentre si trucca paragona i propri occhi con le macchie scure sulla luna piena, con esiti tragicomici), ma, dice sempre la critica, “la capacità di rendere vere le persone descritte, così che il lettore si stupisce quando il Daelli, nelle interviste, rivela trattarsi di personaggi assolutamente di fantasia”
Ero appena uscito dall’auto e salutato con un cenno l’autista che mi aveva accompagnato fin lì (il centro parrocchiale di Cerro Maggiore dove Don Roberto, amico d’infanzia, mi aveva invitato a parlare a dei giovani sul mestiere di scrivere…) quando sentii quella voce
Calda, armoniosa, avvolgente.
Mi voltai e le confesso, micio, che all’inizio fu una delusione: una donna sui sessantacinque, alta e magra, coi capelli di un bianco luminoso tagliati corti intorno a un viso lungo, bocca dalle labbra sottili, senza rossetto, e un naso diritto e regolare sotto i grandi, rotondi occhiali scuri.
Poi mi accorsi della grazia con cui porgeva a non so chi un pacchetto incartato con cura, di quelle mani dalle dita lunghe, di quella sua postura sicura ma non arrogante.
Rimasi a guardarla di nascosto finchè non si girò (rivelando che il candore della chioma era interrotto, verso la nuca e il lungo collo, da una striscia nera di circa tre dita, così netta da sembrare disegnata) e si allontanò.
Sa, micio? Non ho mai avuto problemi nello squartare oggetti e persone reali per creare coi loro pezzi i miei personaggi.
Con quella donna non ci riuscivo. Niente da fare.
Eppure dovevo farlo, se volevo ricominciare a scrivere.
Eppure, ecco. Creare.
Stava lì, la via d’uscita?
Se descrivere un personaggio di fantasia con la dovuta maestria gli dava vita, non poteva succedere l’opposto?
Cioè che una descrizione sciatta, senza nerbo, senza attenzione ai particolari avrebbe reso una persona reale una sorta di fantasma?
Ho (per ora) la sorte di dirigere una delle tante scuole di scrittura. Tra gli allievi ce ne sono sette, con un certo talento, cui feci la stessa proposta: “Vi darò la descrizione di una persona. Vediamo se riuscite a tirarne fuori una storia decente”
Arrivarono sei tentativi, io come nei patti li corressi; solo che non li migliorai, micio, anzi: li resi brutti, squallidi, banali.
Li lessi uno dopo l’altro, in quel posteggio dove tutto era iniziato, come se il solo fatto di essere lì…
Lo sa, micio? Quando mi svegliai dopo l’incidente non ricordavo praticamente nulla.
Normale, dicevano, dopo una botta del genere.
Meno normale era il fatto che all’interno della macchina che mi aveva travolto (una Smart nera, identica a quella da cui lei era uscita, quella sera…) i vigili del fuoco, dopo mezz’ora di dai e dai sulle lamiere contorte, non trovarono nessuno.
Quando lo venni a sapere, capii tutto.
E ora eccomi qui, micio, a maledire la mia stupidità
Perché quella donna è scomparsa, sì, ma non dalla mia mente…E adesso, chi…Oh, micio! Cristina, il suo racconto. Va bè, mi faccia dare un’occhiata; tanto, peggio di così…
…
“Ehi…ma è geniale! Una storia in cui quella donna è la mia madre biologica che invece di farmi nascere e darmi in adozione mi abortisce, ok detto così sembra un melassoso racconto provita, ma vede, micio, spesso nei racconti ciò che contano sono i particolari, è il modo…e le assicuro che leggendo questo la realtà si scolora, si dilegua, scompa
Micio rizza un attimo il pelo e le orecchie e fiuta l’aria ora vuota. Poi, essendo un gatto, non si pone troppe domande e trotterella via. E’ una bestia, su. Non penserete abbia capito perché e come la storia di Luca Daelli, scrittore, sia arrivata alla
FINE
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi.
Eppure ci sono tante cose che ancora non so.
Per esempio, non so proprio da quanto tempo sono qui. Forse non so nemmeno il preciso significato di quello che ho appena chiamato tempo.
E tutto buio, senza riferimenti, liscio, un gigantesco frammento di tormalina, nero, lucido, come il carapace di un insetto.
Non mi muovo, un po’ per paura, un po’ perché non saprei dove andare.
Mi fanno compagnia soltanto i pensieri.
Non c’è nessun rumore intorno, solo il silenzio più assordante, come sulla vetta di un’altissima montagna nella notte più fonda. Una specie di forte ronzio che preme sui timpani.
Apro gli occhi. Nulla cambia nel cerchio del mio sguardo. Le pupille si dovrebbero abituare al buio e cominciare ad aggrapparsi a qualsiasi fonte luminosa, fosse anche minuscola… qui, invece, le tenebre non si arrendono e non aprono minimamente, neanche di un soffio, le loro maglie serrate.
Se ci penso bene, alla fine, non sento nemmeno il bisogno di muovermi e, mentre provo questa assurda sensazione, penso che sia davvero strano.
Penso. Solo questo sembra che possa e voglia fare.
Penso. E sento.
Però, incomprensibilmente, non sento il desiderio di scoprire cosa stia succedendo.
È come se sapessi che va tutto bene, che è giusto così, che sono dove devo essere, senza domande, incredibile, davvero senza domande.
Chi mi ha portato qui? Non importa.
Quando finirà tutto questo? Non importa. Finirà? Non importa.
Nella mia mente ci sono solo immagini, flash di conversazioni, momenti – riguardano me? – attimi di vita, di sensazioni, emozioni, come scene di un video in slide-show, montate da un addetto delirante e variate all’infinito, nessuna che si ripete.
Sì. È chiaro. Tutto questo riguarda me.
Mi vedo, in parecchie di quelle scene, vedo cosa dico, vedo tutto sotto molteplici prospettive, anche dal punto di vista degli interlocutori, dei compagni, degli amici, con un’intensità pazzesca, un vero bombardamento di percezioni.
Eppure tutto questo non mi crea ansia, non mi dà la minima sensazione negativa, anzi, è molto bello, lascia come un senso di familiarità e di intimità che mi piace molto e mi appaga, senza strappi. Mi rende davvero, ineluttabilmente, completa.
Ma, come ho già detto, ho ancora tanto da imparare.
Capisco che QUESTO ha a che vedere con la saggezza, non gli anni, non il tempo, non l’età, non “i capelli bianchi”.
Le cose che vedo sembrerebbero “ricordi” – se ancora un concetto simile avesse senso – ma, in realtà, appaiono anche immagini che non riconosco, a volte, come fossero “scene tagliate” di questa proiezione che qualcuno, qualcosa – o forse la mia stessa anima – mi propone come unico e solo spettacolo.
… (Il Futuro, forse?)…
Io non ho mai avuto i capelli bianchi.
Non ne ho avuto il tempo.
Se ho scelto, però, di venire qui, prima di averli, per imparare tutto quello che imparo – e non c’è mai fine – è stata una scelta davvero saggia, perché dov’ero precedentemente non avrei mai potuto farlo con questa interezza, anche se è stato terribile lasciare tutti quelli che amavo e che mi amavano. Ho visto quanto è stata dura per loro, e quanto lo è ancora, ma SO che, alla fine, ogni cosa, avvenimento e persona sarà al posto giusto.
Come me, che attiro sempre più luce, luce che so esserci, che so essere destinata a me: questa oscurità – anche se ce la mette tutta – non mi inganna.
Come te, che da qui vedo agire, pensare e sentire nel mondo dov’ero anch’io prima, quel mondo così confuso, così maldestro, così finto, che a te sembra, appunto, sempre di più solo una maschera inespressiva che occulta la Verità; neanche tu hai ancora i capelli bianchi, ma, fattelo dire e credici, in compenso hai una saggezza tutta tua, particolare, che ti salverà sempre.
Stanne sicuro, tutto troverà il suo posto.
E se te lo dico io ti puoi fidare, è tutto vero, come diventavano vere le storie che ti raccontavo la sera, accanto al letto, per farti addormentare, per donarti i sogni più belli.
Sogna pure, senza paura. Sei sul sentiero giusto, non abbandonarlo.
E la mia mano ti accompagna e ti accompagnerà ancora, figlio mio.
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi.
A dispetto dei miei che non perdevano occasione per ripetere il loro consiglio di vita: «Dai retta al nonno, lui ha esperienza, sa tutto.»
E adesso che loro non ci sono più e sono costretto a stare col vecchio li maledico mille volte.
Per essersene andati.
Per avermi lasciato qui.
Per non essere ancora tornati a prendermi.
«Andiamo, dobbiamo muoverci, è l’alba» dice il nonno. Anzi, lo ordina. Lui non ”dice”, abbaia i suoi ordini, sicuro che gli obbedirò.
Ha ragione. Cos’altro potrei fare?
Riempio la bisaccia con i viveri, le borracce con l’acqua.
Poi prendo lo zaino con le poche cose che mi appartengono, il pupazzetto di Hulk, il libro di quarta… Lui intanto schioda le assi con cui la sera prima ha sbarrato la porta.
Ogni volta che entriamo in una casa a me piace fare un giro per capire chi ci abitava, le loro usanze, scoprire piccoli indizi di vita quotidiana, studiare le foto poste sulle mensole impolverate…
Lui non ha queste sensibilità, lui la prima cosa che fa è procurarsi assi per sbarrare porte e finestre. Rompe tavoli, sedie, letti… I chiodi e il martello li conserva gelosamente in uno scomparto segreto del suo zaino, come reliquie sacre.
Lo so che bisogna farlo, ma la cosa mi urta lo stesso.
Dopo che il rito è compiuto lui non si muove dalla postazione che si è scelto, di solito davanti all’entrata, la balestra in grembo, attento.
Io preparo da mangiare, a volte un piatto fresco, se trovo un frigo ancora in funzione con qualcosa di commestibile, altrimenti attingo alle scorte della bisaccia.
Lui non si accorge neanche di quello che mette in bocca, degli sforzi che faccio per offrirgli più di qualche scatoletta di tonno e un barattolo di ceci.
Dopo cena restiamo in silenzio, finché il sonno non mi sconfigge.
Una volta, i primi tempi, in una casa alla periferia di Bergamo abbiamo trovato un camino enorme.
Io mi sono immaginato noi due che chiacchieravamo davanti al fuoco, lui che mi raccontava le sue avventure. Le esperienze che l’avevano portato a ”sapere tutto”.
Non me lo ha neanche fatto accendere, il camino.
«Il fuoco fa fumo, saremo troppo visibili.»
Un filo di fumo nella notte? Lì ho cominciato a capire che voleva a tutti i costi contrariarmi, per un suo sadico piacere.
Lì ho cominciato a odiarlo sul serio.
Siamo pronti, adesso latrerà le solite parole.
«Stammi dietro.»
Esce guardingo, lentamente.
Ormai è quasi certo che i Curvi sono predatori notturni, ma a lui quel ”quasi” basta e avanza per essere prudente in modo asfissiante.
Solo una volta, all’inizio, ne abbiamo incontrato un gruppetto di cinque che vagava di giorno.
Il nonno li ha uccisi con la balestra, cinque colpi precisi, da lontano.
«Dove hai imparato a tirare?» gli ho chiesto.
«In guerra» mi ha risposto mentre passavamo oltre i corpi.
Mi aspettavo che mi raccontasse qualcosa in più, ma niente, il solito mutismo.
Affanculo.
Stiamo andando verso sud, così ha scelto lui.
«Almeno laggiù fa più caldo» è la sua giustificazione.
Camminiamo da mesi, questo sud sembra così lontano. E non sento affatto più caldo, anzi, più passano i giorni più un’aria gelida mi avvolge come una coperta.
Ma non fuori. Dentro.
Dopo qualche ora ci fermiamo a riposare in una radura baciata dal sole.
A me viene subito sonno, il tepore, la stanchezza… Poggio la testa sullo zaino e chiudo gli occhi.
Lui sembra non dormire mai, non essere mai stanco, nonostante l’età.
Un rumore di rami secchi mi sveglia. Lui è già con la balestra puntata verso il bosco vicino.
Due Curvi escono allo scoperto con la loro strana andatura, piegati su se stessi. Una coppia. Guardo meglio, sono mamma e papà. Sono tornati a prendermi, finalmente.
Al nonno non interessa chi sono, se quella è sua figlia. Vedo il dito che si contrae sul grilletto. No, stavolta no, stavolta scelgo io. Lo colpisco con un sasso alla tempia. I capelli bianchi si tingono di sangue. Cade al suolo.
Io corro verso i miei, felice.
Loro si cibano di me. La coperta di gelo si scioglie.
FINE
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi.
È tutto quello che riesco a dirmi, mentre con la mia vecchia Citroen guido sulla superstrada.
Fuori dal finestrino la nebbia spegne i colori dell’autunno, stemperandoli in un unico e uniforme biancore chiazzato qua e là di macchie indistinte: boscaglie, vecchie fabbriche in disuso, ruderi di cascine. Ho spento la radio per godermi questa intimità, il tepore che mi avvolge salendo dai piedi, il rumore monotono del motore. Per un momento mi sembra di essere su di una pilotina sperduta nell’oceano.
Ritorno al pensiero di prima e siccome mi piace essere preciso mi dico questa volta: è vero che non sempre chi ha i capelli bianchi fa le scelte più sagge.
Infatti. Partire da Palermo con una decrepita Due Cavalli per raggiungere uno sconosciuto ospedale di Vercelli, alla vigilia del proprio ottantanovesimo compleanno per giunta, no, non è davvero una scelta saggia. Ma adesso che sono quasi arrivato, a furia di caffè e sigarette fumate in fretta con il finestrino aperto, di colpi di sonno scongiurati all’ultimo momento, di soste nell’area di servizio per lasciarsi andare un po’ all’irresistibile richiamo del sonno, di sorpassi azzardati per non perdere l’uscita giusta, mi sento come un cavaliere antico che, sul suo cavallo, ha compiuto una grande impresa.
Mentre parcheggio nel piazzale dell’ospedale, ripenso a Clelia quando avevamo, in due, meno di cinquant’anni. Clelia che mi trascinava a ballare anche quando non ne avevo voglia, che non era mai stanca di parlare, che cantava una canzone spagnola mentre tornavamo in bicicletta dalla spiaggia di Mondello.
Clelia, l’unica veramente amata. A cui ho scritto lettere piene d’amore per quasi tutta la mia vita.
La porta automatica dell’ospedale si apre, davanti a me la coda alla reception.
Clelia che ora sta morendo di cancro e che ha chiesto di vedermi.
Aspetto il mio turno per chiedere informazioni.
Cosa posso dirti Clelia? Forse che sei partita, proprio nel momento in cui avrei voluto proporti di sposarmi, come ultimo tentativo di trattenerti. Di impedirti di scappare, ma come si fa a trattenere il vento o le nuvole?
Mi mandano al terzo piano, primo corridoio a sinistra. Dalle finestre la nebbia rende la città relativa.
Fermo il primo che trovo, un infermiere giovane dall’aria sciupata, mi specchio nei suoi occhi stanchi, forse ha appena finito il turno. Chiedo di Clelia pronunciando nome e cognome ad alta voce, come fanno gli anziani un po’ duri d’orecchi.
Cambia espressione, mi chiede se sono un parente. No che non lo sono e per giunta non la vedo da trent’anni- dico sempre più agitato e ad alta voce, come se ce l’avessi con lui.
Mi guarda fisso e aggiunge che purtroppo sono arrivato troppo tardi.
Altro che cavaliere antico, adesso sento che tutta la stanchezza del viaggio, forse anche della vita, mi cade addosso come un macigno, e mi piega le ginocchia.
Per fortuna poco prima di accasciarmi lui mi afferra sotto le ascelle e mi fa atterrare su una sedia lì vicino, dove resto con lo sguardo perso e il mento sul petto.
Poi, finalmente, comincio a piangere come un bambino, ma in fondo che differenza c’è.
E il film della mia inutile vita si riavvolge ancora una volta per ritornare da capo, con la certezza che forse la mia dote migliore è stata quella di arrivare sempre in ritardo, di perdere sempre l’ultimo treno, e non riesco a vergognarmi nemmeno quando mi ascolto mentre parlo di me a questi due o tre sconosciuti che adesso mi sono venuti intorno, non so se per curiosità o compassione.
Senta – mi dice l’infermiere dopo aver sentito da dove vengo e del mio viaggio – io non la conosco, ma per me esistono solo brave persone, che ne dice di venire a casa mia a riposarsi un po’? Alla mia compagna non dispiacerà. Così potrò raccontarle meglio di Clelia. Mi ha lasciato un compito prima di morire, recapitare una decina di lettere che ha scritto e non ha mai voluto spedire. Magari mi può aiutare a rintracciare il destinatario.
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi. Quella volta il nostro “barbagrigia” aveva fatto una scelta poco saggia, a differenza degli altri giovani comandanti.
Le altre squadre se ne erano andate da tempo ed eravamo rimasti solo noi a resistere all’avanzata del nemico.
“Il nemico: l’unica altra razza intelligente della Galassia…crudeli, schifosi ripugnanti mostri.
Il primo contatto era avvenuto al centro della galassia ed era stata subito guerra; quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica” (F. Brown)
Così, adesso eravamo lì, rimasti soli, a tentare di difendere il nostro pianeta.
“Dovevamo andarcene, come tutti gli altri! Non abbiamo una sola possibilità di farcela”
“Hai assolutamente ragione, Zoe amore mio, ma “Barbagrigia” ha deciso diversamente”
“Ma non saggiamente”
Zoe ed io stavamo discutendo da tempo sulla decisone presa, ma nessuno osava contraddire il nostro capitano.
Del resto nella nostra razza le decisioni prese dagli anziani sono ritenute le più sagge.
La scelta non era difficile, scappare e sopravvivere oppure restare e morire: era chiaro a tutti cosa si doveva fare, ma a quanto pare ci sbagliavamo
“Noi restiamo!” Così aveva detto “Barbagrigia”
“Dobbiamo dare all’aviazione due giorni per caricare tutto il materiale e mettere in orbita le astronavi. Se non riusciranno per il nostro pianeta sarà la fine”.
Quasi nessuno era d’accordo: i più volevano riorganizzarsi, attestarsi su altre postazioni, riunirsi agli altri, provare un’altra difesa. Resistere due giorni soli contro il nemico era un’impresa impossibile!
Ma nessuna motivazione fu presa in considerazione. “Barbagrigia” aveva deciso.
Passammo la notte a rinforzare le difese della nostra trincea, coperti di fango, bagnati fradici, avevamo freddo e fame.
Preparammo le nostre armi, contando ogni singola munizione a disposizione. Quelle, a differenza del cibo, non mancavano.
Ci prendemmo del tempo per affidarci agli dei, al nostro Dio e a quello del nostro compagno d’armi, perché davanti alla morte crollavano anche le differenze di religione, che un tempo furono causa di sanguinose guerre.
Poi provammo a riposare, a recuperare un poco le forze.
Vidi il capitano, all’esterno della trincea, solo, che fissava le stelle, di quella notte limpida e fredda.
“A cosa pensi capitano?”
“Per molto tempo abbiamo guardato alle stelle chiedendoci se ci fosse vita lassù. Ora conosciamo la risposta e le stelle fanno più paura!”
Restammo in silenzio per molto tempo. Fu la notte più lunga della mia vita.
Infine arrivò il giorno e con esso l’attacco nemico.
Si lanciarono contro di noi urlando, scatenando un fuoco infernale, usando tutte le armi a loro disposizione.
“Barbagrigia” cadde a metà del primo giorno di combattimenti. Zoe divenne la più alta in grado.
Aveva fatto carriera, anche se non nel modo desiderato.
Al riparo della nostra trincea ci battemmo come belve feroci: per ogni uomo dei nostri che cadeva loro lasciavano sul terreno tre o quattro soldati, o anche di più: avanzavano allo scoperto, incuranti delle loro vite e delle vite dei compagni, pazze macchine di morte!
A metà del secondo giorno accadde l’incredibile!
Apparve una delle nostre astronavi! Erano riuscite a completare il carico ed erano accorsi a tirarci fuori da lì. Anche l’aviazione non si era risparmiata!
Quelli che ancora erano in grado di combattere diedero tempo ai feriti di salire a bordo, poi, coperti anche dal fuoco dell’aviazione, finalmente salimmo anche noi.
“Zoe corri!”
Ormai era rimasta solo lei a terra.
Si voltò e capì subito che non ce l’avrebbe fatta.
Mi mandò un bacio, raccolse dell’esplosivo e corse verso il nemico!
L’astronave chiuse il portellone e partì, ma io lasciai sul terreno un pezzo di me. Piansi.
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi. Però, forse, le scelte sagge a volte sono sbagliate.
Non fu saggio restare la a combattere, ma alla fine fu giusto.
Riuscimmo a salvare il materiale che ci serviva, riunimmo le nostre astronavi a quelle degli altri corpi e in un ultimo disperato assalto riuscimmo a salvare il nostro pianeta e a respingere il nemico!
Quei maledetti alieni.
Quei maledetti Terrestri!
Pensando a F. Brown
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi. E nemmeno le più generose!
Mi chiamo Jack, sono un Siberian Husky e vivo in Italia. Qui tutti gli husky comunicano allo stesso modo dei nostri cugini rimasti in Siberia: moduliamo i nostri ululati al ritmo di parole che solo noi possiamo capire. Qualche volta ci piace abbaiare, ma solo per parlare con gli umani e la cosa di solito è fatica sprecata. Loro capiscono così poco della nostra lingua! Avevo sempre ritenuto che prima o poi qualche umano anziano mi avrebbe capito, ma mi sbagliavo. L’unico che abbia mai capito il linguaggio segreto degli husky è stato Aleksej.
Aleksej era un bambino bielorusso. I miei umani lo avevano adottato e divenne il mio nuovo padroncino. Già poco dopo il suo arrivo, Aleksej sembrava poter decifrare ogni movimento della mia coda. La cosa mi sembrava parecchio strana e così ne parlai con i cani del quartiere. Aleksej mi sentì ululare e uscì di corsa in giardino per togliermi ogni dubbio: “Tu sei mio amico! Certo che ti capisco!”.
All’inizio avevo creduto che Aleksej potesse capirmi perché originario di un paese più freddo dell’Italia ma, come mi fece notare Amanda, la vicina di cuccia, quello era un pensiero da esseri umani superficiali.
Durante un giro al parco il mio amico Tom mi raccontò che, secondo una antica leggenda, solo i bambini tristi potevano cogliere il linguaggio segreto degli husky. Se quella leggenda fosse stata vera, allora il mio amico Aleksej era triste e la cosa non mi piaceva affatto.
Una domenica pomeriggio, mentre fingevo di sonnecchiare, origliai i discorsi tra i parenti dei miei umani. Volevo scoprire se Aleksej fosse davvero un bambino triste. Mi resi conto che tutti facevano fatica a comunicare con lui. Mi sforzai di stare attento a ogni sfumatura delle loro parole e capii che Aleksej parlava una lingua diversa. Per noi cani le lingue degli umani sono tutte così simili che non avevo notato la differenza. Aleksej inoltre sembrava diffidare di tutti, tranne che di me e degli altri bambini.
Nel corso dei mesi per fortuna le cose cambiarono. Aleksej non solo aveva imparato l’italiano ma aveva iniziato a chiamare Mamma e Papà i miei umani. In loro aveva trovato degli adulti in cui credere e questo lo portava a sorridere spesso. All’inizio non lo faceva mai! Più il tempo passava, più Aleksei sembrava felice, ma capiva sempre meno quello che io tentavo di dirgli.
Desideravo tanto poter comunicare di nuovo con lui e, non sapendo come fare, invocai l’aiuto degli altri cani. Gli husky del vicinato si unirono al mio ululato per trasmettere la domanda al Saggio Siberiano. Di quartiere in quartiere l’ululato fu ripetuto dai cani nel nord della città, poi da quelli ancora più a nord. Il messaggio si spostò fino al Trentino, varcò i confini e prese il volo verso nord est fino ad arrivare in Siberia. La risposta del Saggio Siberiano fece il percorso a ritroso, si spostò di ululato in ululato, di confine in confine. Si soffermò sopra all’istituto in cui Aleksej era cresciuto, fece evaporare tutte le emozioni che Aleksej aveva provato e le portò da me. Quante cose avevo finalmente capito!
“Jack – disse il Grande Siberiano – Aleksej era stato deluso dagli adulti ma ora ha trovato dei genitori su cui contare. Tu lo hai aiutato a fidarsi di loro e questo ti fa onore”.
Mi sentii orgoglioso ma, ascoltando il seguito, mi rattristai.
“Devi scegliere Jack! Puoi lasciare tutto così oppure far sì che Aleksej torni a capire il nostro linguaggio. In questo caso il bambino non avrà più fiducia nei tuoi umani!”.
Ero molto giovane, ma sapevo quale fosse la scelta giusta.
Guardai Aleksej giocare a Monopoli con i genitori. Tutti e tre avevano negli occhi quella luce che solo chi è amato davvero può avere. Non avrei mai potuto spegnerla. Mi avvicinai a loro in cerca di coccole. Aleksej mise da parte il dado che stava per lanciare e mi riempì di carezze.
“Mamma, Papà – disse – questa sera dovremmo smettere di giocare. Jack ha bisogno di noi”.
Aleksej, che aveva solo sette anni, non poteva più capire linguaggio segreto degli husky ma comprendeva i miei sentimenti meglio di chiunque altro e, solo per me, quella sera aveva scelto di non giocare.
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi.
“Slap!” era partito uno schiaffo. Difficile comprendere chi dei due fosse più stupito.
Gianni, il figlio quindicenne, avvertì un forte bruciore alla guancia sinistra, ma il dolore più acuto lo sentiva al cuore umiliato e incompreso. Quell’unico e violento attentato alla sua dignità di essere umano, avrebbe lasciato un segno indelebile nella sua complicata esistenza di adolescente. Sostenne fieramente lo sguardo del padre, ma il suo abbozzo di sorriso si trasformò in un ghigno beffardo, poi, per nascondere una inaspettata lacrima, uscì dalla stanza sbattendo la porta.
Carlo, il padre, rimasto solo si sentì annientare da un pesante senso di colpa. Aveva percepito odio e disprezzo. Come in uno specchio rivide se stesso mentre incrociando gli avambracci cercava di proteggersi dalla mano callosa e pesante di suo padre che in questo modo rivendicava onore e rispetto verso il capofamiglia e ribadiva il concetto a suon di botte. Come in un cortometraggio in bianco e nero, aveva ancora nelle orecchie l’eco dei suoi singhiozzi inconsolabili, raggomitolato dietro il divano, e le urla di un padre all’antica. Nella sua infanzia aveva respirato paura e solitudine, il silenzio sottomesso che non ammette contraddittorio.
Carlo si lasciò cadere mollemente sulle ginocchia. Il freddo pavimento aumentò quella sensazione di gelo all’anima. Si sentiva un fallito, una nullità. Era venuto meno al suo giuramento. Fin dal primo giorno che lo aveva tenuto tra le braccia si era ripromesso di non fare gli stessi errori del suo “vecchio”, ma lo avrebbe amato, ascoltato e reso felice. Fino ad allora c’era riuscito. Certo, il mestiere di genitore non è così facile!
Non voleva giustificarsi trovando alibi al suo comportamento: stava attraverso un periodo nero, molto stressante. Il lavoro non rendeva più; c’era il mutuo da pagare, si sentiva sotto pressione e poi quella richiesta inopportuna del figlio: un motorino nuovo.
A un certo punto sentì l’esigenza di uscire di casa. Si ritrovò sulla strada umida e luccicante sotto il riverbero dei lampioni. Camminò a capo chino senza meta. I suoi piedi lo condussero davanti alla clinica dove era ricoverato il suo anziano padre, che non vedeva da tanto tempo, da quando sua madre era morta. L’infermiera lo fece entrare anche se l’orario delle visite era già trascorso. Il padre sprofondato sulla poltrona non aveva più quello sguardo terribile paralizzante e che lo aveva fatto crescere fragile e insicuro, come una pianta in una crepa di cemento. Ora, il più forte era lui! Gli si accoccolò accanto come non aveva mai fatto. In quel momento avrebbe desiderato essere percosso, fu allora che il pugno del “vecchio” si aprì ad una carezza, l’unica che avesse ricevuto. Parlarono a lungo e si confidarono. Quando uscì sentì di essere un uomo nuovo, capace di perdonare e di perdonarsi.
Giunto a casa, il figlio era già a letto. Era convinto che lo strappo non si sarebbe ricucito con qualche battuta spiritosa o cedendo alle sue richieste. Tenendo fede alle sue meditate scelte educative decise di metterlo al corrente di tutto, comprese le sue difficoltà economiche. Il ragazzo era voltato di schiena e faceva finta di dormire. Il padre non ottenendo alcuna risposta, fece per rialzarsi deluso, ma venne bloccato da un vigoroso abbraccio e sentì sussurrare: “Papà, ti voglio bene”.
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi. La mia lunga, e logorante, giornata lavorativa si era appena conclusa con l’ennesima riunione dell’ufficio marketing sugli ultimi studi di mercato. Ero distrutto dalla stanchezza e il pensiero di rientrare in una casa vuota se da una parte mi dava la possibilità di godermi un po’ di quiete, dall’altra mi avviliva per non poter vedere le persone che amavo. Mia moglie e i nostri figli erano partiti per la casa in montagna e li avrei raggiunti solamente nel weekend. “Qualche giorno di vita da single mi farà bene.” avevo ingenuamente pensato. Ma, dopo soli due giorni passati nel silenzio tra quei muri, iniziavo ad avere dei dubbi al riguardo.
Dovevo anche fare la spesa se volevo cenare quella sera. Il centro commerciale vicino a casa era spuntato con le sue mille luci nel mezzo della nebbia di questa uggiosa giornata dicembrina. L’aria era talmente carica di umidità che mi ritrovai col viso bagnato appena sceso dall’auto. Un brivido mi corse sulla schiena.
Fortunatamente avevo trovato un parcheggio libero proprio davanti all’ingresso principale ed il caldo, generato dal potente impianto di climatizzazione, mi aveva avvolto subito dopo l’entrata.
La luce intensa, la stucchevole musichetta natalizia che avrebbe dovuto essere solo di sottofondo ma che a quel volume non ti permetteva neanche di pensare, la massa rumorosa (per forza di cose per cercare di sovrastare la musica) di persone in cerca dei regali per l’imminente festività avevano immediatamente accentuato il mal di testa che mi accompagnava dal pomeriggio. Dovevo sbrigarmi ad andare a casa a prendere un’aspirina.
Iniziai ad aggirarmi tra le corsie del reparto alimentari senza avere memoria di cosa mi servisse e neanche un’idea di che cibo volessi mangiare. Misi nel carrello alimenti dei generi più disparati: yogurt greco, biscotti al cioccolato, pomodorini, datteri, grissini.
Ormai avevo deciso di andarmene quando ti vidi. Avevi la pelle tesa e lucente, le pupille nere e brillanti, la tua carne era soda e compatta.
Bastò uno sguardo ed eri già mia. Ti caricai in macchina e in 5 minuti arrivammo a casa mia. Aprii una bottiglia di un Franciacorta rosè con delicati sentori floreali e con un gusto morbido e fresco che tenevo per le occasioni come quella che si stava creando.
Accesi il fuoco sotto una pentola in cui avevo messo a soffriggere in un olio ligure particolarmente fruttato uno spicchio di aglio di Voghiera, a cui subito dopo aggiunsi dei pomodorini datterini, delle olive taggiasche e dei capperi di Pantelleria. Volevo darti il meglio e trattarti come era giusto che fosse.
Mentre per la casa inizia a spandersi il profumo di quel condimento così saporito presi a degustare un bicchiere di vino, era fresco, delizioso e stuzzicante per le mie papille gustative già ingolosite da quell’intingolo che cucinava sopra il fornello. Adesso anche tu avevi trovato il tuo posto e io non vedevo l’ora di saziarmi di te. Apparecchiai la tavola come nei migliori pranzi festivi di famiglia.
Sento suonare il timer, è pronto. È arrivato il nostro momento. Impiatto velocemente, ormai la brama è al culmine. Silenzio anche il cellulare. Adesso siamo solamente io e te e nessuno ci può disturbare. Avrei dovuto assaporare il momento con calma, invece la foga mi ha fatto dimentico di tutto e mi butto su di te senza riguardo né ritegno. Se avessi usato la testa e non mi fossi fatto prendere dalla golosità mi sarei accorto che qualcosa in te non andava bene. Magari avrei sentito quella lieve alterazione che mi poteva salvare da una notte insonne accampato in bagno. Eri bellissima ma eri avariata, maledetta orata.
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi. Il nonno avrebbe voluto disfarsi di quei quadri surreali regalati negli anni cinquanta da un amico belga, un certo Renè. Il giovane Harry si oppose ed ebbe ragione. Capirete perché.
Nella dimora di Winterbrook House i famigliari di Sir Mallowan si erano riuniti per la veglia. Richard li aveva lasciati inaspettatamente. Non soffriva di patologie importanti, gli anni però cominciavano ad essere tanti. Il salotto era stato approntato per la circostanza, fotografie del defunto appoggiate sui pizzi macramè della nonna. Alcune mostravano stralci degli istanti più belli vissuti con i familiari. Gli amici assaporavano biscotti fatti in casa accompagnati da una leggera musica di sottofondo e da qualche aneddoto divertente riesumato dai ricordi. Un angolo era dedicato alle passioni del defunto: quadri e spartiti musicali. Harry fu rapito dalle scene rappresentate da alcune tele esposte. A suo giudizio erano “magnetiche”. (La Magherini vent’anni dopo avrebbe identificato questo stato d’animo con il fenomeno psicosomatico passivo della coscienza, sindrome di Stendhal). Un brusio lo distolse da quella visione. Suo padre, Alex, nell’avvicinarsi alla salma aveva notato, grazie ad un’aureola violacea, un forellino sul collo. Qualcuno insinuò: “per una morte così inattesa, almeno l’autopsia!”. La famiglia non diede importanza alla scoperta, così il giorno dopo, le esequie. Gli zii Max e Agatha Mallowan1 avevano già trovato sepoltura nel cimitero di Cholsey, ed ora anche Richard.
Quella sera sembrava interminabile, in casa l’unico suono proveniva dalla pendola dell’atrio. Il salotto era illuminato dalla luce soffusa di una lampada da tavolo appena sufficiente a far intravvedere i volti dei presenti. Harry si sentiva appesantito da quel innaturale silenzio, fu così che iniziò a sfogliare alcuni libri d’arte che il nonno di consueto consultava. S’imbatté in un foglio piegato in quattro: aveva tra le mani il testamento di Richard. Il legale di famiglia fu prontamente convocato. Lesse le ultime volontà ai presenti. Tutti gli averi di Richard erano stati lasciati ai figli Carol ed Alex. La famiglia Mallowan era sbalordita. Chi era questa Carol? Lo stesso Alex non sapeva dell’esistenza di una sorella. Trascorsero i giorni seguenti a rovistare negli effetti personali del nonno. Nulla che facesse pensare ad un’altra figlia.
Harry non si interessava all’eredità era impegnato in altra ricerca: i quadri erano spariti. Aveva passato al setaccio ogni angolo della casa, chiesto ai genitori, ai domestici, all’infermiera del nonno, Susan, l’unica che aveva mostrato un inspiegabile interesse per le quattro tele del belga. Poi successe che dopo cena Alex ebbe un incidente domestico. Il decimo gradino della scala a pioli, utilizzata per raggiungere l’ultimo ripiano della libreria a muro, era stato letteralmente segato, cosìcchè quando vi appoggio il piede, il suo peso lo fece cedere e si ritrovò a terra. Con il volto tumefatto ed il costato dolorante si coricò.
Harry non smise di cercare i dipinti. Era tarda notte quando il cane dei vicini iniziò ad abbaiare, si affacciò alla finestra, in quell’istante vide Susan con due grosse valige attraversare il giardino. L’impressione era che stesse scappando. Da chi? Meglio dire, da cosa? La rincorse. Harry non impiegò molto a raggiungerla, Susan inciampò e cadde, un bagaglio si aprì, un dipinto spuntò. In casa, la stessa ebbe modo di fornire una spiegazione, che non convinse nessuno. La mattina dopo ricevettero la visita della polizia. Susan era accusata di furto. Le chiesero di mostrare i documenti. Sulla carta di identità: Carol Mallowan. Il nonno aveva sempre saputo chi fosse realmente la sua infermiera. Un giorno le si era presentata alla porta raccontando la sua storia. Lui comprese, certo non avrebbe mai immaginato che sarebbe stata la causa della sua morte. Dopo l’accaduto Alex decise di far riesumare la salma per quel famoso forellino sul collo: una puntura letale. Carol confessò. Era la sua vendetta per essere stata abbandonata.
Mentre la conducevano sulla macchina di servizio, Harry le chiese il perché di così tanto interesse per i quadri, Carol rispose: “le opere di Renè Magritte, valgono una fortuna!”
1 Realmente esistiti e sepolti a Cholsey
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi…
Quella frase pronunciata alle mie spalle è come un coltello piantato nella schiena. Mi giro. Lui mi guarda con aria indifferente. Vorrei prenderlo a pugni lì davanti a tutti, ma non posso. Non posso mentre la bara di Simone scende nella fossa. Così ingoio tutto il mio odio e mi limito a chiedergli “come?”
“Sì insomma” continua alzando le spalle “ho sbagliato a coinvolgerlo nel nostro progetto, non era pronto.”
Quello che ha definito “il nostro progetto” è stata solo una grande menzogna raccontataci dall’uomo che si era offerto di spiegarci la vita.
Ricordo come fosse ieri quel primo giorno d’università. Ero il primo della mia famiglia a varcare quella soglia. Negli anni settanta un figlio laureato è il sogno di qualsiasi operaio. E nella mia famiglia la parola d’ordine è lavoro e sacrifici, per permettere al figlio maggiore di studiare. Siamo in pochi alla facoltà di legge, ma siamo gli orgogliosi simboli di riscatto sociale. Il corso di economia politica è il più importante. Il professore è famoso in città. È un’intellettuale. Entra nella stanza con la consapevolezza di avere tutti gli occhi su di lui. Alto, elegante. Lunghi capelli bianchi raccolti in una coda. Un sorriso sicuro incorniciato da una barba candida, un viso solcato da una ragnatela di rughe su cui spiccano due grandi occhi verdi.
Si siede e ci guarda uno a uno e ci identifica subito. Siamo tutti vicini in prima fila. Siamo quelli vestiti peggio. Siamo i figli del popolo, siamo il suo obiettivo.
Da subito si offre di darci lezioni gratuite nel suo appartamento tre pomeriggi a settimana.
“I figli degli avvocati, dei medici, dei giudici già sanno come funzionano le cose” dice “ma voi avete bisogno di lezioni speciali, per non restare indietro.”
E l’inganno comincia.
Così io, Simone e una decina di altri ragazzi iniziamo il suo corso complementare. Un corso fatto di retorica, di luoghi comuni, di odio instillato lentamente nelle nostre menti. Contro una classe politica corrotta, contro industriali sciacalli che ingrassano, succhiando la nostra linfa vitale. L’uomo saggio, l’uomo dai capelli bianchi, l’uomo dalle mille esperienze ci conferma, con parole convincenti, quello che noi viviamo quotidianamente nelle nostre case. Mia sorella, sacrificata a tredici anni, mandata a fare la sarta in un piccolo negozio per consentire al fratello di studiare. La madre di Simone che fa le pulizie nelle case dei ricchi per uno stipendio da fame. E ci sprona a combattere contro il sistema, ma non con le parole, non con la politica, non con lo studio o le lotte sindacali. No, questi strumenti per lui non servono. Sono superati, lenti, inutili. No, lui ci spinge a combattere con le armi.
In pochi mesi passiamo da Marx a Molotov. Alcuni di noi se ne vanno. Altri restano, per non avere problemi all’esame. Un paio, ormai imbevuti di propaganda d’odio, ci credono. Credono di poter cambiare le loro sorti e quelle del paese sparando, bruciando, uccidendo.
Ed è così che Simone viene scelto tra tutti. La parola d’ordine in quell’inverno del 1975 è gambizzare. Non è stato difficile per il professore convincerlo. La vittima prescelta è il padrone della fabbrica dove suo padre lavora da trent’anni. Una vita passata in ginocchio tra mancanza di tutele e vessazioni. Una vita di rabbia repressa che suo padre finiva per sfogare su sua moglie e i suoi figli. Qualcuno doveva pagare, e Simone sapeva chi.
Tre giorni sparando nei boschi per fare pratica e poi via. Il professore ha studiato gli orari del padrone della fabbrica, ne conosce le abitudini, ne ha studiato le mosse, ma non si espone in prima persona. L’uomo saggio manda avanti il ragazzino. Simone avanza, pistola in pugno, attraversa l’atrio. Vede il padrone uscire a piedi. Vede anche la guardia dietro il cancello, ma il suo cervello non registra l’immagine. La paura ha preso il soppravvento. Alza l’arma, la mano gli trema. La guardia reagisce. Spara, prima che Simone possa prendere la mira. Simone si piega in due, colpito allo stomaco. Morirà in ospedale. L’uomo saggio, l’uomo dai capelli bianchi, il maestro si defila. Non è colpa sua. Lui ha solo sbagliato la scelta. La prossima volta punterà su qualcun altro, più forte e più coraggioso.
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi. Io adesso ho i capelli bianchi, ma è passato tanto tempo da quella scelta che è stata determinante per la mia vita. “Vieni a vedere, i gerani sono fioriti” mi chiamò Tania aprendo leggermente la porta del balcone, facendo così capolino in salotto con la sua testa piena di ricci bianchi. Uscii, non senza aver dato un affettuoso sguardo di saluto ai bignè al cioccolato. Erano gerani rossi, di tipo edera e scendevano a cascata dal balcone “Il concime era buono e il tempo è stato clemente.” dissi, invitando poi Tania ad assaggiare i bignè. Mia moglie fece i complimenti e promise di preparare una crostata alla frutta. Era bello, ci scambiavamo cortesie anche se il patto era di non eccedere nei dolci, naturalmente per motivi di salute .
Arrivarono gioiose le cose più dolci della mia vita: mia figlia e i miei nipoti. ”Nonno, sono per noi quei bignè?” chiese Giacomo guardandomi e sapendo già la risposta. “Sono per tutti noi” risposi con un ampio gesto della mano. Mia figlia accese la televisione, un programma adatto ai ragazzi e mi invitò ad andare in cucina. Iniziò a raccontare, interrotta da singhiozzi. “Ho litigato con mio marito Luca. Voleva andarsene di casa perché non riesco a conciliare il lavoro con la famiglia. Ho risposto che avrei preso una collaboratrice domestica per la pulizia della casa e avrei mandato i figli a lezione privata. Tutto con i soldi del mio stipendio” Ascoltai, dimostrando comprensione e i singhiozzi si diradarono. Mia figlia continuò:” Poi ho preparato un aperitivo, prima di cena, con tante tartine come tu e la mamma mi avete insegnato a fare. E dopo cena c’è stata la completa riappacificazione”. “Sono buoni, quei bignè!” disse venendoci incontro mio nipote Giovanni. “Come?!” disse Tania ”Hai già assaggiato i bignè? Dovevi aspettare tutti”. Poi i due si abbracciarono ridendo e tutti andammo in salotto per mangiare finalmente i dolci.
“Gianni, è stato organizzato un corso di pasticceria. Le iscrizioni scadono venerdì della prossima settimana” mi aveva detto Tania con tono gioioso, quando eravamo giovani. “Perché non ti iscrivi anche tu?” ”Che dici, Tania, ho già un lavoro molto remunerativo, ma grazie per avermelo detto” La mattina seguente mi recai al lavoro e guardai con disperazione le cose da fare: molte buste paga per varie ditte, compilare il giornalmastro per tre cooperative ed altri conti. Ero impiegato da un commercialista. Avevo il diploma di ragioniere e potevo anche mettere su uno studio per conto mio. L’immagine di un bignè al cioccolato attraversò la mia mente e mi distrasse dai conti che avrei dovuto fare. Respirai profondamente per riprendere la concentrazione quando mi apparve davanti agli occhi una millefoglie. Non so da che cosa, ma capii che era ancora calda. Una mano sopra la fronte, poi gli occhi sulla prima busta paga. Niente. Altre immagini di leccornie mi apparvero. “Non sono goloso” provai a dire a mezza voce e finalmente capii: potevo diventare un buon pasticcere e mandare al diavolo tutte quelle scartoffie, tanto più che la retribuzione ci sarebbe stata ugualmente.
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi…quella volta, Otello aveva agito male, spinto solo dal suo enorme ego e da una profonda solitudine.
Si era opposto con tutte le sue forze al fidanzamento della figlia Lucrezia con Giacomo, si era opposto, per i suoi principi tanto antichi quanto poco ortodossi, in realtà era così geloso di lei, che non sarebbe andato bene neanche il principe azzurro in persona, ammesso che poi, il principe, potesse realmente interessarsi a Lucrezia.
Lei era una ragazza di buona famiglia, questo si, aveva una buona condotta, un che di grazioso che la rendeva, in alcune circostanze, persino piacevole, ma non era sua sorella Beatrice. Beatrice era la grazia in persona, da ogni poro del suo corpo emanava eleganza e gentilezza, era intelligente, bella, spiritosa, affascinante, era tutto ciò che Lucrezia non sarebbe mai diventata, e quello che la rendeva ancora più interessante, era che non aveva la benchè minima consapevolezza di quanto fosse meravigliosa.
Lucrezia, no, nonostante le sue poche doti ed i suoi altrettanto miseri talenti, camminava per strada come fosse una principessa, non salutava nessuno, non si intratteneva a fare conversazione con alcuno e spesso, era arrabbiata e di cattivo umore.
Beatrice, invece, dedicava molto del suo tempo agli altri, aveva sempre una parola buona per tutti e illuminava le giornate della gente del paese con il suo sorriso.
Come fossero sorelle, se lo chiedevano tutti, senza darsi alcuna spiegazione. Probabilmente, il vecchio Otello non era riuscito a sostituire la sua povera moglie e qualche errore, nell’educazione di Lucrezia, di sicuro l’aveva fatto.
Dopo la morte della cara e amata consorte, aveva sviluppato un attaccamento morboso per la sua figlia minore e ne era diventato estremamente geloso.
Deve essere stato, sicuramente ,questo il motivo delle sue scelte scellerate riguardo alla possibilità di Lucrezia di prendere, finalmente, marito e di allontanarsi da quella vecchia casa e da un destino che lei stessa aveva più volte immaginato.
Quando Lucrezia presentò il povero Giacomo al suo adorato padre, Otello neanche lo degnò di una parola o di uno sguardo, fece proprio finta di non vederlo, non avrebbe mai accettato la sua presenza, fece come se lui non esistesse.
Lucrezia ne restò amareggiata, delusa, ma non diede tanto peso alla cosa, pensava che col tempo, il suo burbero padre, avrebbe provato affetto per il suo nuovo genero, lo avrebbe trattato come il figlio maschio che non aveva avuto.
Ma le cose non andarono così, colui che avrebbe dovuto mostrarsi saggio e lungimirante, colui che avrebbe dovuto sacrificare se stesso, per rendere gioioso il futuro della sua figlia prediletta, si comportò come un bambino capriccioso ed egoista, non avrebbe “regalato” sua figlia a nessuno, tanto meno ad un povero garzone di bottega, senza arte né parte, senza gli occhi per piangere, senza futuro.
E di lì a poco, iniziò una guerra a colpi di inganni e sotterfugi, di dispetti e maldicenze, tanto fece, che le disgrazie, una dopo l’altra, colpirono il povero Giacomo, che si arrese alla sua sorte e fu costretto, suo malgrado, a lasciare l’amata Lucrezia.
La lasciò in preda allo sconforto, a fiumi di lacrime ed urla contro l’amato padre, ma neanche la sofferenza della sua stessa carne, permise ad Otello di ritrovare la retta via e di fare ammenda delle sue colpe.
Pensava di essere nel giusto, credeva che la sua esperienza, i suoi capelli bianchi e tutta la vita che gli era passata davanti, fossero la bussola che gli indicava sempre la giusta direzione e neanche le parole di Beatrice, che era in realtà, l’unica saggia della famiglia, gli fecero cambiare idea.
Lucrezia doveva restare con lui, doveva sostituire l’amata madre, doveva.., il dovere prima di tutto, era questo che gli avevano insegnato tutta la vita ed era questo che avrebbe insegnato lui a quella che aveva “scelto”, per far si che il suo ultimo pezzetto di vita, non fosse solo pieno di rimpianto e di solitudine.
Quello che non sapeva, però, era che Lucrezia, in preda allo sconforto, delusa e arrabbiata, prese una decisione che nessuno, tanto meno Otello, avrebbe immaginato; non ritornò da Giacomo, rinunciò a quell’amore, ma non tornò neanche alla sua vecchia casa, abbandonò il suo vecchio padre e si mise in viaggio per cercare, finalmente, se stessa.
“Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi…” pensava tra sé e sé Artemis mentre tornava a casa dopo quel pomeriggio, quell’incontro che le aveva cambiato la vita.
A scandire il suo procedere, l’andamento dei suoi passi, erano alcune righe di un testo che aveva letto qualche anno prima all’interno del libro Monte Cinque, di Paulo Coelho.
Nella sua mente riappariva e risuonava con forza quella frase che aveva solo apparentemente compreso: “Un bambino può insegnare sempre tre cose a un adulto: a essere contento senza un motivo, a essere sempre occupato con qualche cosa e a pretendere con ogni sua forza quello che desidera “.
Non avrebbe mai pensato che quelle parole fossero così vere, reali. Era convinta che solamente l’esperienza, la vita, il procedere degli anni avrebbero potuto insegnare tutto questo.
Si sbagliava.
Aveva cinquantatré anni e non era in grado di farle. Credeva di esserne capace. Era sola appetenza.
Artemis, avvocato in carriera, madre fiera di due gemelli ventenni, moglie di un giornalista affermato.
Una vita nei salotti altolocati. Relazioni importanti, rapporti con persone di ceto molto abbiente e con cariche rilevanti nel panorama romano.
La sua, una vita concitata, piena e ricca di impegni oltre che di relazioni, pranzi e cene di lavoro in ristoranti e case bellissime e prestigiose.
La vita che quando era giovane sognava e che oggi credeva fosse in grado di renderla felice.
Era arrivata a questo col tempo, grazie al marito e alle sue relazioni politiche.
Era giunta con sorrisi forzati. L’aveva ottenuto non perché lo pretendeva, ma perché lo aveva accettato.
Se nella sua vita passata era ciò che desiderava, ma oggi era quello che viveva – subiva, credendo di essere felice.
Credenza.
Appetenza.
Viveva in una bolla, ma non lo sapeva.
Non apriva gli occhi. Non era conscia che li aveva chiusi.
Tutti la invidiavano.
Era quella che voleva.
Ma lei, era felice?
Non si poneva la domanda.
Doveva esserlo e lo era.
Non sapeva provare questa sensazione senza motivo.
La sua gioia era subordinata al solo risultato, il suo impegno al dovere.
Artemis si era staccata dalla vita. Inconsapevolmente.
Quel pomeriggio tutto era cambiato.
Stava aspettando una telefonata di lavoro.
Era nella sua pausa pranzo che aveva stranamente deciso di trascorrerla a Villa Borghese, nel parco, all’aria aperta.
Era la prima volta che non passava quel pseudo break davanti al pc, mentre studiava l’atto da discutere a breve.
Avrebbe dovuto farlo anche quel giorno.
Così non accadde.
Non c’era un motivo, stranamente.
Mentre in colpa sedeva nella panchina dinnanzi al laghetto una scena le stava per aprire gli occhi.
Un bambino, probabilmente africano, che correva.
Avrà avuto poco più di sette anni.
Correva in modo scoordinato ricorrendo una farfalla.
Un gesto inconsueto. Difficile da vedere a Roma, anche nelle aree verdi.
Un bimbo come tanti, un insetto, come molti.
Azioni semplici, naturali non costruite o studiate.
Atti apparentemente banali e poco soddisfacenti.
Artemis osservava meticolosamente con ingiustificata attenzione il viso di quel bambino.
Era parlante, auto esplicavo.
Serenità e gioia si univano a ingenuità e purezza.
Lui nel suo “non fare” aveva scoperto come tenersi impegnato con gioia.
Era l’esempio di come si potesse essere felici pretendendo quanto si desidera. La libertà.
Tornata a casa Artemis prese la sua tazza e la riempì fino all’orlo con la Coca-Cola che aveva comprato tornando a casa. Non la beveva da anni, perché non era chic. Era felice, con niente. Era impegnata nell’essere felice e nel sentirsi libera.
Un fulmine a ciel sereno.
La sua vita non era sua.
La scelta.
Scrivere.
Ricominciare a farlo.
Iniziare finalmente il suo romanzo. Questo significava concretamente scegliere di essere felice e libera. Era il sinonimo di provare a realizzare il suo vero sogno.
Non fece passare molti secondi per dare formalità a questa decisione: licenziarsi da un lavoro che non amava.
“Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi”.
Rileggo ad alta voce l’ultima frase di questa lettera e, sinceramente papà, avrei sperato in un finale diverso.
Qualcosa che mi restituisse una tua versione migliore, una specie di redenzione, ma a questo punto mi arrendo.
L’ultima immagine che ho di te risale a ieri: avevi gli occhi chiusi, dormivi, e nonostante questo cercavi di scrocchiarti le dita, un tuo vecchio vizio.
La penultima invece risale a quarantotto anni fa, era mattina presto, eri in ginocchio, i tuoi occhi nei miei e mi sembravi un gigante accucciato, con il dopobarba secco che pungeva il mio naso bambino. Il mio cuore batteva forte, il rumore faceva a gara con le ossa delle tue dita. Doveva esserci anche Susy, ma chissà perché nel mio ricordo non c’è.
È stata lei, in tutti questi anni, a tenere un minimo di rapporti con te. Lei mi ha detto che ti lamentavi che non ti avessi mai scritto. Lei mi ha aperto una mano e ci ha messo dentro un biglietto con scritto “piano secondo, stanza 284”.
L’ho appallottolato, ma non l’ho buttato.
Ieri ho fatto i due piani dell’ospedale a piedi, fermandomi più volte per riprendere fiato.
I corridoi erano deserti, dalle stanze non giungeva neppure un lamento. L’unica differenza con i cimiteri, ho pensato, erano i sottofondi bassissimi delle televisioni.
Mi sono affacciato alla 284 e, se non fosse stato per il nome fuori dalla stanza, non ti avrei riconosciuto. Il tuo viso era sbarbato come quarantotto anni fa, ma l’odore che aleggiava era quello del disinfettante e i tuoi capelli pettinati all’indietro erano bianchi come il cuscino.
Mi sono avvicinato, cercando di far coincidere l’immagine del gigante accucciato e quella del pierrot che mi trovavo di fronte. Mi sono seduto e ti sono restato accanto per un’ora mentre tu non hai fatto altro che dormire. Ironica sintesi del nostro rapporto, vero papà?
Nella stanza tutto era al posto giusto, persino le pieghe del lenzuolo che avevi rimboccato con cura.
L’unico particolare asimmetrico era una settimana enigmistica che sbucava da un angolo dal comodino. Sulle caselle nere del cruciverba, in copertina, c’era un sottilissimo strato di polvere.
L’ho presa in mano, mancava solo il 6 verticale e l’ho terminato per te. Era facile, chissà perché non l’hai finito.
Sopra di me pendeva la flebo e gocciolava a una lentezza inquietante. Sembrava scandire il tempo che ti (o forse ci) restava.
Poi c’è stato quell’attimo in cui hai provato a scrocchiarti le dita e il mio cuore è rimbalzato come non accadeva da quel giorno. Ma era un falso allarme, non ti sei svegliato. Sarebbe stato complicato anche per te trovarmi lì vero papà?
Infine è arrivata Suzy a darmi il cambio.
Sei morto stamattina e sono tornato nella 284 per raccogliere le tue cose.
Dalla finestra si spandeva una luce piatta e grigia. Il tuo letto era ancora disfatto: ho poggiato una mano sul lenzuolo che copriva il materasso e, ovviamente, era freddo.
La flebo pendeva immobile ed era vuota.
Ho svuotato il tuo comodino: un pacchetto di biscotti aperto, due caramelle al rabarbaro, le ciabatte; curioso, avevi solo il 42.
Nel cassetto ho trovato questa lettera. Non so per chi la stessi scrivendo ma l’ho aperta lo stesso. Sai papà, mi sarei accontentato di una scusa, una tua banalissima bugia auto assolutoria. Mi ci sarei aggrappato per dirti addio.
Invece in queste due pagine hai scritto di te, solo di te e poi, alla fine, quell’accenno a Susy che, nonostante tu non fossi d’accordo, ti ha convinto a farti ricoverare. Te lo confermo, tua figlia è più saggia di me e di te. Per questo sono convinto che almeno lei meritasse qualcosa di più di un commiato tanto banale. Di certo pensavi di cavartela, di avere tempo per sistemare le cose in sospeso. Questa fuga non l’hai organizzata bene come l’altra sai?
Alla fine comunque ti sto scrivendo, hai visto?
Ah, giusto per chiudere il cerchio. Il 6 verticale, la più famosa locuzione latina di Orazio, no, non te la dico, sarebbe una facile ironia in questa situazione. Ho trovato un tuo capello bianco sulla federa e l’ho raccolto. Ora è nel mio portafoglio. Se arriverò ad avere quel colore in testa non mi farò trovare impreparato. Almeno questo me lo hai insegnato. Addio papà.
“Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi, perché è proprio chi ha queste caratteristiche che ti ha mandato dove sei, ti amo non te lo dimenticare mai figlio mio, non ti abbattere solo perché sei giovane e solo, essere un soldato è un compito difficile ma sono le persone come te a cambiare questo, tieni duro, la tua mamma”;
Sono tre anni che manco da casa. Mi sono arruolato in nome di mio padre morto in guerra, volevo cambiare il mondo con il coraggio, volevo che mio padre fosse fiero di me.
Domani ci sarà la grande battaglia, o si vive o si muore.
Guardare mio padre nella bara, ammazzato a sangue freddo, vestito con la sua uniforme piena di medaglie mi aveva fatto riflettere; avevo deciso che se avessi dovuto scegliere come morire avrei voluto andarmene tra L’applauso delle persone per cui avevo combattuto. Questa è la vita: il coraggio, la tenacia e la forza di combattere per lasciare un mondo migliore ad altri.
Il mio unico amico qui è Gregorio, in lui ho trovato un appoggio e affetto come da un padre.
Fa freddo, siamo sdraiati in buche scavate con le mani nella terra cosicché i nemici non ci vedano, tanti di noi pregano ed altri piangono.
Gli scarponi non tengono caldo, le mie mani non si muovono e non posso fare altro che ammirare il cielo, nevica, guardando il panorama da quella prospettiva i miei occhi si perdono nello sconfinato spazio dell’orizzonte, ammiro questi fiocchi perfetti creati dal niente; diventa un peccato combattere con la neve, rende tutto più magico e ti fa dimenticare il perché ci si odia, il perché ci si vuole uccidere a vicenda; se ci penso bene non c’è un giusto motivo; nessuno dovrebbe decidere quando devi smettere di vivere.
“Francesco pss”, cerco di girare il viso verso Gregorio ma sono paralizzato dal freddo, “hai paura?” Mi chiede, Gregorio non faceva mai queste domande, “no”, mento.
Mi chiedevo cosa si provasse a sentire una pallottola entrarti dentro la carne o nel cuore, mi chiedevo cosa si provasse a morire, se si vede buio e basta o se si vede qualcosa di bellissimo.
Un rumore assordante mi sveglia, mi sento confuso, riesco solo a mettermi le mani sulle orecchie, Gregorio mi prende sotto braccio e mi scorta dietro ad una cunetta di pietre;
“Francesco!” Urla, “una bomba è caduta vicino a te ma sei vivo!” Sorride prendendomi la faccia tra le mani, non capisco niente guardo solo i suoi occhi lucidi. Cala il silenzio, facciamo tutti un respiro di sollievo. Sono seduto accanto a Gregorio: “fra se muoio..” “non dire cazzate” lo incalzo, “nessuno muore”, “fra se muoio di a mia moglie che la amo e ti prego accompagna tu mia figlia all’altare, si sposerà tra due mesi”, lo dice talmente in fretta che non ho tempo di bloccarlo, “te lo prometto” dico con un tuffo al cuore, mi dimentico sempre che Gregorio ha vent’anni più di me, è stato un amico importante in questo percorso e avrei mantenuto la promessa se necessario.
Da lontano vediamo un uomo avvicinarsi, un nemico con le mani alzate, lo guardavamo tutti con sospetto tenendo i fucili puntati, pensavo, forse si sono stancati di combattere?
“Non sparate sono disarmato!” Urla, “vado io!” Dice Gregorio, si alza e si avvicina all’uomo.
“Cara mamma, oggi sono morto e non tornerò. C’è stata tesa un imboscata e per salvare un amico mi sono preso una pallottola nel cuore, lui doveva accompagnare sua figlia all’altare, sua moglie lo stava aspettando a casa. Sai mamma aveva un sacco paura di cosa avrei provato morendo, in realtà non ho sentito niente, solo un gran freddo, il mio corpo è rimasto nella neve. Lo sai che sono sempre stato un po’ pazzo, non potevo non mettermi di mezzo, me lo dicevi sempre tu che ero un ficcanaso da bambino, vedi mamma io non potevo lasciare che lui non vedesse sua figlia sposarsi. mamma io sarò sempre con te.
Sei stata proprio tu ad insegnarmi che l’amicizia è un valore importante, io oggi sono morto con onore, sono morto per Gregorio.
Non disperare per me io starò bene, lo sapevamo, il lavoro del soldato è difficile e ogni tanto ci si muore. Ora lo so mamma, non sempre chi ha i capelli bianchi fa scelte sagge, Gregorio ha la testa piena e forse non sarebbe dovuto andare lui.
Ti amo mamma,
Francesco “
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi. La saggezza può smarrirsi, a volte, di fronte alla passione. O ad un sipario che si sta per chiudere.
L’impasse durava forse da tre minuti, ma a tutti sembrava di essere lì fermi da molto più tempo. Guardavamo Luca che, molto lentamente, toglieva la scarpa di Matteo, e questi che stringeva tra i denti un lamento. La caviglia si era gonfiata all’istante. C’erano pochi dubbi sul fatto che non fosse in grado di camminare.
«Ma chi ha portato fuori il comodino lasciandolo lì?». Alice non alzava lo sguardo. Nella sua testa il dolore di Matteo, e il dolore di una commedia sognata e costruita per mesi, che forse si spegneva per sempre. E magari, con lei, le luci di quel teatro. Nessuno, però, indagò oltre.
Dopo un istante di silenzio, Marta disse che bisognava chiudere il sipario: un semplice cambio di scena non poteva durare così a lungo, la gente cominciava a mormorare. Marco acconsentì e si diresse verso il comando per chiudere, ma Sergio lo interruppe con un gesto secco.
Sergio era il più anziano del gruppo, faceva parte della compagnia da quando era stata fondata, e negli ultimi trent’anni aveva passato più tempo in quel teatro che in casa sua. Per noi era un maestro. La sua voce non cadeva mai nel vuoto con noi, rispettavamo i suoi capelli bianchi di sipario e riflettori, le sue rughe disegnate dal trucco, il suo incedere lento che svegliava, una alla volta, con riguardo, tutte le assi del palco.
«Non è mai successo che uno spettacolo, qui dentro, non sia giunto alla fine», disse in un sussurro caldo.
«Sergio, ma Matteo non può continuare, e la commedia non sta in piedi senza il suo personaggio».
«Adesso facciamo vedere che siamo attori, ci inventiamo qualcosa. Improvvisiamo. Questo è fare teatro, ragazzi, è mettere in gioco tutto.» replicò Sergio, sicuro.
Marco soffriva nel contraddire l’anziano amico, ma quella di chiudere il sipario e presentarsi in proscenio per spiegare l’accaduto, gli sembrava l’unica soluzione. «Non siamo neanche a metà. Qui non si tratta di metterci un siparietto. Chiudere è una scelta necessaria, anche se dolorosa. La gente capirà.»
«Non è solo la gente, si tratta di non offendere il teatro! Non temete: fidatevi di questo vecchietto. Uscirò e mi inventerò un modo per fare andare avanti lo spettacolo».
Non lo potevamo fermare, ma ci era chiaro cosa gli stavamo consentendo di fare.
Entrò in scena e fu accolto da un applauso. Cominciò a fare ciò che sapeva fare meglio. Tirò fuori tutto, anche le viscere. Sembrava voler accarezzare il pubblico; cercava con gli occhi uno sguardo da arpionare, ma non stava facendo il gigione e non voleva elemosinare un consenso. Ci rapiva con la perfezione della sua tecnica, con l’armonia del suo stile. Solo che non era al suo posto. Era a suo agio e godeva nel fare il suo teatro, ma aveva scelto di buttarsi senza rete. Non poteva arrivare alla gente, che cercava di capire dove fosse il filo, e non poteva accogliere uno stravolgimento simile. La trama si stava disfacendo e lui cercava di rimontarla senza disporre dei pezzi necessari.
Guardammo il suo monologo esaurirsi, affievolirsi in modo annunciato, dirigersi verso un “poi” che noi non potevamo garantirgli, o verso un applauso che il pubblico, smarrito, non era pronto a concedere. Ci chiedevamo cosa avrebbe fatto.
Marco entrò in scena leggero, proprio sull’ultima parola di Sergio, sul suo mento che si abbassava verso il petto. Non sfuggì al tecnico delle luci e l’effetto fu immediato. Il pubblico colse la tensione e si lasciò prendere per mano.
«Signori, stasera non siamo stati in grado di portare a termine lo spettacolo a causa di un imprevisto. Avremmo voluto scusarci e chiudere, ma per un attore, chiudere a metà di una commedia è come pugnalare il teatro stesso. E l’uomo che vedete qui di fianco a me, è un grande attore. E la risposta, per lui, è sempre entrare in scena. Proprio oggi che non vi abbiamo potuto offrire ciò per cui avevate pagato il biglietto, grazie a questo attore, avete avuto la fortuna di vedere messo in scena l’amore per il teatro.»
Mentre l’applauso scrociava, nella barba bianca di Sergio affiorò un sorriso che diceva: «Ragazzo, mi hai salvato dalla mia incoscienza. E forse hai salvato anche il nostro teatro».
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi. Basta osservare la mia famiglia. Mio padre, a 55 anni già completamente ingrigito, ha deciso di lasciare mia madre e si è messo con una di vent’anni più giovane.
Io l’ho presa abbastanza bene. Ovviamente sono molto dispiaciuto per mia madre e cerco di sostenerla e passare quanto più tempo possibile con lei, nonostante abiti fuori casa e lavori nove ore al giorno. Ma mio fratello, che ha diciannove anni (sette meno di me), non riesce ad accettare la separazione.
Il problema è che non ha ancora capito. E’ troppo giovane e crede che certe cose debbano durare per sempre. Invece prima accetti la realtà della vita, che ogni cosa è transitoria, prima inizi a stare meglio e a vivere in pace.
Certo, più facile a dirsi che a farsi. Io stesso ho una sfilza di relazioni finite che mi hanno fatto soffrire terribilmente. Ma ogni volta sto un po’ meno peggio della precedente, vorrà dire qualcosa, no?
Mi volto verso mio fratello, che seduto al tavolo di cucina si sta lamentando del comportamento di nostro padre. Non chiama quasi mai e si fa vedere ancora meno! Sembra che abbia deciso di troncare ogni rapporto non solo con mamma ma anche con noi che siamo i suoi figli!
Io lo guardo e non ribatto, seppur concordi con lui. Ma dargli ragione non farebbe che alimentare le fiamme. “Come va con la scuola?” Cambio argomento. Lui mi fissa come se fossi impazzito. “Come va con la scuola?” ripete, facendomi eco. “E’ questo di cui vuoi parlare?” Scuote la testa, incredulo, i suoi grandi occhi scuri sgranati.
“Non è che ne voglia parlare per forza, ma tra poco avrai gli esami e ho pensato…”
Mi interrompe. “Non è il momento di parlare degli esami! Dobbiamo far ragionare papà e farlo tornare a casa!”
Io taccio. Non comprende, o non vuole comprendere. Papà non tornerà, non in veste di marito almeno.
———————
Ripenso a Eraclito e al suo Panta rei. Tutto scorre e si trasforma in continuazione. Al liceo non apprezzavo particolarmente lo studio dei filosofi antichi, ma una volta cresciuto mi sono ritrovato a guardare alcuni di loro con occhi diversi.
Non che ci volesse un genio per rendersi conto che Eraclito aveva ragione. Qual era l’altro suo motto? Non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume.
Mio fratello si rifiutava di capirlo.
———————
Mio padre ebbe un infarto, un anno più tardi.
Sopravvisse.
Eppure al suo capezzale non c’era la sua nuova compagna. C’era mia madre. Andò a prendersi cura di lui ogni giorno, finchè non fu dimesso. Ciononostante non tornarono insieme.
Mio fratello continuava a non capire. Ma io comprendevo benissimo.
Alcune cose mutano, ma sarebbe un errore affermare che anche le persone lo fanno. Nella mia esperienza, le persone difficilmente cambiano, nemmeno se lo vogliono fortemente.
A volte mi sento dire che sono troppo giovane per essere già così cinico. Può darsi. Ma, per come la vedo io, sto tentando semplicemente di non complicarmi la vita cullandomi nell’illusione che la realtà possa rimanere la stessa per sempre.
Così sono pronto a qualunque cambiamento.
Panta rei.
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi, spesso ci si dimentica delle emozioni, degli impulsi, della soggettività caratteriale.
È stato sempre una persona passionale, si è sempre fatto prendere a pieno dalle cose, ha dispensato spesso consigli e raccomandazioni ma non ne è stato capace, non è un difetto dico solo che ha sempre ragionato col cuore.
D’altronde non aveva tutti i torti ma ora lo so! Non sempre le scelte giuste si rivelano sagge, il problema è che è stato sempre animato da un desiderio di giustizia.
Ma quindi essere saggi significa anche andare contro i propri ideali?
In fondo cosa avrebbe dovuto fare?
Potrei dire che è stato solo un irresponsabile in quanto un uomo della sua esperienza poteva immaginare che avrebbe potuto tirarci tutti in ballo.
Beh potrei dire che saggezza e giustizia non vanno proprio a braccetto o almeno non sempre.
Lui non accettava affatto quanto accadeva sotto i suoi occhi, a pochi metri da casa sua, tuttavia ad una certa età si potrebbe prender coscienza del fatto che le cose vanno in un certo modo o quanto meno aver presente che certe cose proprio non le puoi cambiare senza pagare un prezzo.
Eppure gli avevano intimato di starne fuori se non voleva patirne le conseguenze, i segnali che gli avevano lanciato erano alquanto chiari, una sorta di compromesso insomma tu non dai fastidio a noi e noi non diamo fastidio a te.
Da magistrato in pensione di battaglie ne aveva combattute, poteva immaginare che certe persone sono capaci di tutto, trasformare il vero in falso e viceversa.
Ma poi quand’è che si diventa saggi?
Alla luce del vissuto potrei dire che, a volte, è il potere del terrore che ci rende saggi?
E la saggezza è una tutela personale o altrui?
Di fatto lui non ha fatto altro che salvaguardare vite altrui eppure gli avevo detto: “Papà stanne fuori, queste persone non scherzano, metti a rischio la tua vita ma anche la nostra” ma lui sì è sempre definito un missionario.
Tuttavia eravamo abituati ad essere nomadi sotto copertura, a causa del suo lavoro siamo stati costretti a vivere una vita di privazioni e costanti preoccupazioni.
Potrei dire che è stato un egoista a voler saziare la sua fame di giustizia mettendo in secondo piano la sua famiglia ma non è così, si è sempre premurato di noi.
Ora lo so! La giustizia, come la vita, è un palcoscenico dove lo spettacolo dura finché sei sotto i riflettori e ormai erano due anni che mio padre era uscito di scena forse gli mancavano i panni che aveva indossato per oltre trent’anni, quelli del giustiziere.
A volte mi chiedo se ne è valsa la pena ma poi guardando il motivo che l’ha indotto ad agire in quel modo penso che sia stato tutto giusto ciò che ha fatto! Forse sono stato egoista a cercare di dissuaderlo, d’altronde il suo coraggio ha posto fine al perpetrarsi di una barbarie.
Quelle ragazze, ancora minorenni, venivano continuamente abusate da loschi uomini che non facevano altro che alimentare il crimine organizzato e quell’atto di coraggio gli ha ridato la possibilità di scegliere, cosa di cui erano state private.
Quel giorno ci furono cinque arresti con l’accusa di sfruttamento della prostituzione minorile e tratta di persone e quelle ragazzine, ancora traumatizzate, furono affidate ai servizi sociali ma quel gesto di giustizia non venne accolto di buon grado dalla cittadina locale da sempre omertosa e collusa.
È stato sempre un giovane vecchio mio padre almeno fino a quel momento, fino a quell’attimo in cui quel boato rimbombò in tutto il paese.
Oggi lo vedo lì immobile davanti a me, le lacrime bagnano il legno duro della bara, duro come la sua testa, duro come la vita, vorrei potergli dire di non disperare che è stata la scelta giusta e che andrò sempre fiero di lui, vorrei solo potergli dire che ora anche io mi sento un missionario e che lo sorveglierò dall’alto.
“Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi, poi che mentre l’esperienza rafforza il senso di cautela, l’ardimento è proprio della giovinezza e se ci son circostanze le quali giudiziosamente ammoniscono d’essere avveduti, ve ne sono che ugualmente esortano all’audacia”
Come l’abile scultore avrebbe inciso la pietra per mezzo di colpi scrupolosi e fermi, Marco Fabio Ambusto declinò sapientemente il suo esordio.
Riempiendo l’aria con la teatralità dell’oratore insieme epidittico e giudiziario, declamava la sua arringa più importante, nel tentativo di ottener graziata la vita di Quinto Fabio Massimo, suo figlio.
Si era appellato di fronte al Senato allo strumento della provocatio ed ora Campo Marzio tuonava di centomila romani in armi, chiamati al giudizio di clemenza.
Dietro il quadriportico si ammassavano le 193 centurie, opportunamente divise e bardate di armamenti secondo il censo. Lungo i 1300 piedi del colonnato perimetrale, si udivano sconquassare gladi e lance contro gli scudi e strepitare fabbri, accensi e suonatori di corni.
Sfavillavano sparsi i bronzei ornamenti dalle ombre meno profonde dei vestiboli.
Nell’aria i fiati ed il sudore mescevano afrori violenti, malcelati dagli incensi liturgici.
Ambusto entrò dalla porta nord, facendosi largo tra le toghe purpuree.
Prima di pronunziarsi avanzò nell’arena, staccandosi dalla schiera dei senatori, solo, senza nemmeno la sua ombra, che il sole troneggiava solenne.
Giunto a quaranta passi dai tribuni, che in prima istanza avevano formulato la sentenza di morte, si fermò. Tra i magistrati uno scranno vuoto, di fronte al quale autorevole ed austero, si ergeva nella lucente armatura il dittatore che stava pretendendo la vita del figlio: Lucio Papirio.
A metà strada, nel mezzo dello stadio, il giovane magister equitum ridotto in catene, per aver trasgredito il preciso ordine di non attaccare il nemico.
Ambusto riprese:
“Sapeva di andare incontro alla morte
L’ordine di attaccare i barbari Sanniti, l’avrebbe pagato con la vita, se non in battaglia, per le leggi della Repubblica
Ma egli ha l’impudenza dell’età e l’arguzia del condottiero,
ha il cuore dei Fabii che s’immolarono per la nostra gloria,
ha il coraggio di un soldato romano, pronto al sacrificio,
Quinto Fabio Massimo ha il mio sangue, ma è figlio di Roma!”
L’oratore conosceva bene le sue genti ed il profondissimo senso di Patria. Fu così che conferì alle ultime parole una tale potenza vibrante, che infiammò il cielo sopra Campo Marzio delle urla ancestrali di un popolo compatto
Concluse:
“Papirio Cursore uomo esperiente e pio, venne a chiedere consiglio agli auguri e quale stratega valentissimo, allentò con la sua assenza la guardia dei nemici.
Per le sue virtù rese possibile a Roma la vittoria, che il fedele Magister ebbe il solo merito di cogliere prontamente”
Con sottile acume lasciò a Papirio un onore che gli era inevitabilmente sottratto, elevando il figlio a martire e paladino.
Erano gli attimi decisivi che precedevano la sentenza.
Il tumulto del popolo si chetò irrealmente
Tra loro stringeva nelle manine il suo cavallo di legno il piccolo Quinto Fabio, che avrebbe oscurato la fama del nome paterno.
Il tiranno decretò la decisione ultima contro quella del popolo.
I littori abbassarono i fasci: morte!
Già gli era stata strappata l’uniforme, quando Quinto Fabio si gettò ai piedi del dittatore chiedendone il perdono.
Arduo a descriversi quanto avvenne
Di fronte al senso umano del suo campione, il popolo romano elevò agli dei, ritmato e portentoso, il nome dell’eroe: “Fa bius – Fa bius – Fa bius”
Papirio obtorto collo, pronunciò queste precise parole:
«Sta bene, o Quiriti: ha vinto la disciplina militare, ha vinto il comando supremo, che avevano rischiato di perire in questa odierna giornata. Quinto Fabio, che ha combattuto contro gli ordini del suo comandante, non viene assolto dal suo reato ma condannato per il crimine commesso, viene graziato per riguardo al popolo romano, che ha elevato suppliche in suo favore e non per intercessione legale. Vivi, Quinto Fabio, fortunato più per il consenso della città nel proteggerti che per la vittoria. Vivi, malgrado aver osato compiere un’azione che neppure il padre ti avrebbe perdonata, se si fosse trovato al posto di Lucio Papirio»1
1discorso originale
“Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi.
Se solo mi avesse ascoltato…”
Mia mamma, ormai 60enne, si era decisa ad acquistare una casa, dopo anni e soldi spesi in affitto; poiché voleva lasciarmi in eredità una casa di proprietà.
Io dapprima ne fui felice ma quando scoprì quale aveva scelto cambiai stato d’animo; sapevo in cuor mio che non era una scelta saggia.
Abbiamo sempre vissuto in un paesino adagiato sulle colline Cuneesi popolato all’incirca da cento persone difatti ci conoscevamo tutti fra di noi.
Nel paesino alleggiava da sempre una terribile leggenda: si narrava dell’esistenza di una casa maledetta ed era proprio quella che mia madre avrebbe acquistato dopo qualche anno.
Devo ammettere, avendola visionata personalmente, che la casa si presentava maestosa sia all’esterno che all’interno.
Ero andata insieme a mia mamma ad ispezionarla e visitarla perchè lei non credeva minimamente alla leggenda che definiva semplici pettegolezzi di paese.
Voleva acquistarla anche per dimostrare a tutti gli altri cittadini che si sbagliavano a giudicarla in malo modo e che stavano sprecando un immenso patrimonio.
Voleva redimere quella casa sd ogni costo.
Al momento di firmare l’ultimo documento per possederla, mia madre era entusiasta mentre io ero titubante.
Anche se ci provai, nulla le fece cambiare idea e d’altronde non potevo impicciarmi dato che i soldi spesi erano i suoi.
La prima notte all’interno della nuova casa andò bene, ma già la nottata seguente sentì provenire dalla cantina dei lievi lamenti che nelle notti successive si fecero sempre più intensi.
Iniziai anche ad udire lo struscio di catene ed anche se impaurita non rivelai nulla a mia madre.
Finchè una notte, svegliata di soprassalto, vidi lei: Elena.
L’avevo riconosciuta perchè avevo visto una sua foto nel libro scritto sulla leggenda del nostro paese.
Era lì di fronte a me che mi fissava con una sguardo che pareva indemoniato.
Benchè sapevo che non era reale ma solo uno spirito io la vedevo nitidamente.
Iniziai a sudare freddo.
Mi paralizzai.
Feci per chiamare mia madre per chiederle aiuto ma non riuscivo ad emettere nessun suono.
Presa dal panico, persi i sensi e l’ultima cosa che vidi fu lo sguardo stupito di mia madre mentre entrava nella mia camera da letto e assisteva a quella scena.
Ho rimosso tutto di quella notte, so solo che al mio risveglio mi sono ritrovata dentro un letto di ospedale.
I medici mi rivelarono qualche giorno dopo che avevano ritrovato il corpo senza vita di mia madre e tutto d’un tratto ricordai.
Ma certo Elena. Era stata sicuramente lei ad ucciderla.
Si era voluta vendicare, dato che quando era in vita i suoi stessi concittadini omertosi conoscenti delle atrocità che subiva, si voltavano dall’altra parte facendo finta di non udire il suo grido di dolore.
Fingendo che non accadeva nulla in quella casa.
Eppure tutti sapevano che Elena era stata rapita da dei personaggi molto noti del paese. Sapevano che era stata portata lì, sapevano ciò che accadeva. Sapevano che non aveva nessuna via di fuga perchè stipata e barricata in una gelida cantina.
Poteva essere salvata ed invece è stata lasciata morire sola e al freddo.
Ecco spiegato perchè nessuno può permettersi di mettere piede in quella casa.
Ecco spiegato perchè chiunque abbia provato ad abitarla ne sia uscito morto.
Lei non gradiva nessuno perchè nessuno l’aveva aiutata a sfuggire dal suo destino crudele.
Tutto ciò avrebbe dovuto saperlo anche mia madre, poteva credere che la leggenda fosse reale almeno si sarebbe risparmiata la morte.
“Mamma se mi avessi ascoltato a quest’ora saresti ancora qui con me”
Ma una lezione l’ho imparata.
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi.
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi…più sono in là con l’età e più credono di essere intelligenti e presumo, alcuni, di essere pure furbi e scaltri.
In una parola, giovani!
E come se, aumentando gli anni, sia naturale diventassero più capaci di intendere e di volere. Ma, magari fosse così!!!
La gerontocrazia sarebbe ancora all’ordine del giorno e non una delle leggende metropolitane che i mass media divulgano. Prendete me, per esempio, quale saggezza ispira il mio fare? Quella dell’età? Che si presume debba essere guidata dalla capacità di razionalizzare…perché se non hai imparato a sessant’anni, ma quando impari più? E, invece, a rimorchio di un’adolescenza presente ancora nei ricordi e nelle sue immagini, ripeto costantemente gli stessi errori. Mentre non dovrebbe essere così! Ma, cosa mi hanno insegnato i miei errori? “A doverli affrontare!” -risponderei se non fossi funestato dal passato e dai suoi errori che si ripetono! Ma, a cosa serve sapere di non essere in grado di fare le scelte giuste per sé stessi? “A non doverle fare per altri!” è la voce della coscienza che parla? Mah! A sessant’anni si può credere lo sia!… Che la paranoia non sia soltanto quella di non trovare una penna che scriva bene, che non sia questo il problema, che non lo debba essere, che non lo diventi per colpa di qualcuno che vorrebbe scrivere meglio ma che l’età non l’aiuta… “Perché?” Perché il concetto di età prevede anche questo. Viene riconosciuto ai sessantenni che sia questo un momento decisivo alla loro sopravvivenza, da qui l’esagerata sopravvalutazione di quello che fanno per non estinguersi, da cui la loro incapacità di rendersi conto che il loro problema non è la penna che scrive bene. Ecco, ho capito, così almeno credo, che quello che faccio, cui solitamente e iteratamente mi lascio andare è sottovalutare il problema. Affronto il problema sottovalutandolo… ma da quale filosofia avrò mai tratto questo insegnamento? “Ma da quello del pressapochismo!” Pressappoco: tutto è pressappoco come è, cioè: tutto sempre così come appare, pressappoco così com’è. Quindi, da vecchietti ci lasceremo andare alle apparenze, se da giovanotti badavamo più alle apparenze?
È un teorema del pressappochismo!
Lo dice la coscienza?
Si, lo dice anche la coscienza!
“Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi…”
“Cosa stai dicendo?”
“Dico…se tu non te ne stessi lì a ciondolare e ascoltassi una buona volta…che non è sempr-…aspetta, hai sentito?”
“Cosa capo?”
“Là, sopra il tetto. Ho visto qualcosa. Tu?”
“…”
Un portone scuro, logoro, incagliato fra le lamiere dell’imponente prefabbricato, avanzò inesorabile sul pulviscolo di cemento cinereo. Degli enormi scarponi sovrastarono l’uscio. Preceduti da una massiccia e nodosa mano, avvolta in un guanto di seta.
“S-s-salve signor Bridge” squittirono all’unisono i due individui, impacchettati in cappotti blu oceanico con stemma di reparto, scarponi e borsalino color pece e occhiali rossi. All’intersezione fra spalla e collo, su entrambi, spuntava, inciso nella carne, una tarantola con testa di volpe. Il segno distintivo della brigata di Bridge.
“Aattenti! Stavate gozzovigliando eh?” le lunghe ciocche argentee di Bridge ondeggiarono sulla spessa fronte corrosa dal tempo.
“No, signore! P-p-piuttosto…è tutto risolto?”
Bridge, mantenendo salda e retta la postura e le spalline ferrose dell’uniforme, perpendicolari alla sua figura, slanciata e piazzata, girò lentamente lo sguardo alla sua destra, sorridendo fra i tesi baffi grigi.
“Dovresti verificare con i tuoi occhi…non credi Gustave?”
Gustave, lo smilzo, tenente gamma della divisione alchemica, pensò a svariati modi per ricordarsi, una volta al sicuro nella sua stanza, di quanto sia meglio tenere la bocca dannatamente chiusa quando si è al cospetto di Bridge e cercare di farsi notare il meno possibile. Deglutì.
“S-sì, signore.” E avanzò adagio verso l’entrata. Gado, sottotenente gamma, decisamente più tracagnotto e silenzioso del primo, ridacchiava in silenzio.
Gustave poggiò lentamente la mano sul rovere logoro e spingendola verso le sue spalle, avvicinò il proprio sguardo, insieme alla sua testa, verso l’interno del fabbricato. “C-come diavolo…” Dinanzi a lui si stagliò una pila di corpi semi carbonizzati, ancora rantolanti, pieni di pustole ed secrezioni. Sul pavimento il liquido, escreto dal dolore della matassa di corpi, impregnava le pareti del proprio odore.
“Hai capito mio caro Gustave? Non bisogna dimostrarsi irrispettosi nei confronti della legge…e soprattutto di chi ha l’oneroso dovere di farla rispettare. Adesso vai. Esci. E non ti azzardare mai più a rivolgerti a me in quel modo! D’accordo, Tenente Gustave?!”
“S-sì signore!” e fra i denti lo maledisse, quel pazzo diabolico di Bridge, una macchina trita uomini con il dovere di uccidere, solo per il gusto della trasmutazione e del sangue.
Gustave ritornò velocemente, dal compagno Gado, sull’attenti.
“Bene signori! Qua è tutto…”
Dal cielo cominciarono a cadere flebili gocce. Il cielo gonfio di grigio. Il suolo pregno di pioggia.
Bridge riprese, scostandosi dai due e dirigendosi verso la sua V8 Pilot. “La soffiata era giusta, era un piccolo insediamento di Mediu…allora voi due adesso pulite tutto, preparate rapporto e per oggi siamo a posto. Mi raccomando, prima che la luna sorga. Riiposo!”
Appena Bridge si fu congedato, i due trassero un grosso sospiro di sollievo guardandosi negli occhi.
“Ooh Madre! Gustave! Pensavo ti avrebbe lacerato in due ahah!”
“Z-z-zitto Gado. Piuttosto, muoviamoci a finire il lavoro.”
I due entrarono nel fabbricato. L’odore era denso e schiacciante, così come la vista. Terribilmente inquietante. Prepararono i cerchi alchemici, ognuno ai quattro angoli della struttura. Gado iniziò a raggruppare i sacrifici, distribuendoli fra le quattro postazioni. Gustave invece era impegnato nella preparazione del cerchio totalizzante, quando un suono acuto lo scostò dal lavoro. Proveniva dall’ammasso di sporcizia ed indumenti dei Mediu. Si avvicinò. Il rumore si fece squillante. Scostò la robaccia e d’un tratto, ai suoi piedi, si presentò, avvolto in luridi stracci, il volto dolce e paffuto di una bambina dai capelli di rame. Sulla fronte un cerchio perfetto e celeste, come il cielo d’estate. Una Mediu.
Gustave non fu capace di resistere alla compassione e alla gioia della vita che gli si schiudeva davanti. “Diavolo, devo essere uscito di testa…ti chiamerò Blu. Resta qui, dolce Blu. Tornerò stasera a prenderti e vedremo il da farsi…” E di fretta, un po’ felice e un po’ spaventato, tornò dal compagno Gado, ancora intento ad ammucchiare cadaveri…
[Continua]
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi. E i fili candidi che mi rimangono in testa si contano sulle dita di due mani, quindi dovrei saperlo bene, no?
Abbasso lo sguardo sui gesti esperti di Irma che mi aggiusta il pannolone e, con uno sforzo esagerato, sollevo il sedere per farmi tirare su i pantaloni del pigiama. Mi chiedo come riuscissero queste gambe a portarmi in bagno e farmi alzare dal water soltanto un anno fa.
Ma immagino che il declino sia come la felicità: non lo riconosci mai quando ci sei dentro.
“Dottore, perché guarda me così?” domanda Irma col suo accento ucraino che si va smussando di mese in mese.
Appoggio una mano sullo sterno. Il dolore al petto oggi è insopportabile. “Pensavo, Irma. Mi capita spesso negli ultimi giorni…”
“A che pensare?”
Mi sfugge un sospiro. “Penso che tutte le nozioni che ho acquisito negli anni, tutta la conoscenza che inseguo da quando ho conosciuto l’ambizione… alla fine dei giochi, non contano proprio un bel niente!”
Irma mi guarda strano, ma darle in pasto questi pensieri ha un non so che di catartico. Sospetto che capisca al massimo un quinto delle parole che uso, ma, per sua sfortuna, è l’unica che possa ascoltare i deliri di questo vecchio.
Sfioro coi polpastrelli le costole dei volumi organizzati con cura accanto al letto. “Li vedi tutti questi libri di medicina? Sono stati la mia vita per più di cinquant’anni. Questi e l’ospedale. Ho inseguito la carriera come fosse la mia dose di cocaina e, quando non c’era più niente da inseguire, mi sono nutrito di conoscenza. Ho riempito il cervello fino alla nausea, per non sentire l’eco del vuoto che mi stavo scavando nel petto.”
Irma annuisce convinta. “Lei ottantadue anni e cervello buonissimo!”
Sento l’amarezza di un sorriso sulle labbra. “Già. Che fortuna, eh? Un cervello affilato in un’enorme casa vuota. Sai, Irma, a vent’anni non ero così. A vent’anni, quando ho conosciuto la donna più dolce e passionale che esistesse sulla faccia della terra, io ero proprio come lei. Per cinque anni ho aggirato il coprifuoco pur di passare insieme ogni minuto, sono persino fuggito di nascosto dalla stretta sorveglianza di mio padre per farla diventare mia moglie. Lui mi voleva sempre a studiare, ma allora ero più saggio di così… saggio come non lo sono più stato.”
“Lei no ha moglie, Dottore.”
“No, Irma, non ce l’ho più una moglie. Ma ce l’avevo: Lucia. La presenza più solida che abbia conosciuto in tutta la vita. Pensa che io non sono mai rientrato a casa prima di mezzanotte e lei mi ha lasciato la cena in caldo per ben quindici anni prima di stancarsi di vivere con un marito fantasma.” Un pesante macigno mi chiude la gola, mentre l’aroma del ragù ci raggiunge dalla cucina, risvegliando frammenti di una vita consumata. “Fu una di quelle sere che mi chiese di scegliere. Mi disse: ‘guardami negli occhi e giurami che ami più me del tuo lavoro’. E io non risposi. Dannato codardo! Non risposi… Tutti quegli anni passati a costruirmi un nome erano serviti soltanto a imbiancarmi i capelli e svuotarmi il cuore.” Mi asciugo le guance umide, un battito frenetico che mi rimbomba nel petto. “L’ho lasciata andare via con nostro figlio, Irma. Ma ho fatto anche di peggio: non li ho più cercati, non ho chiesto perdono. Non so neppure da che parte di mondo si siano rifatti una vita. Se avessi lottato per loro, forse adesso non sarei un patetico vecchio che sta per morire da solo, in una casa troppo grande per lui. Ma è così che funziona, no? Affronti la vita a testa bassa finché, alla fine, un allarme ti risuona in testa, ma sei troppo stanco per alzarla.”
“Dottore deve stare tranquillo!” Vedo Irma afferrare il telefono e mi accorgo che sto quasi affogando nei miei singhiozzi, ma non so come fare a fermarli.
“Aiuto! Dottore sta male!”
Il dolore al petto mi toglie il fiato. Stringo gli occhi e tutto ciò che vedo è il volto sfocato di Lucia.
“Mi… dis-piace…” La forza di parlare mi sta abbandonando, ma devo pronunciare le parole che non sono mai riuscito a dire prima. Devo chiedere scusa a Lucia, a mio figlio, a me stesso.
Mi fa male il cuore… Proprio l’organo che ho studiato con passione per tutta la vita.
Ironico che sia proprio lui alla fine, a portarmi via.
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi..
Ho sempre nutrito un profondo rispetto per le persone più mature, sia per la loro esperienza sia per educazione, anche se spesso l’età è un’ arma a doppio taglio, poiché fornisce lezioni di vita ma limita sempre più le capacità delle persone.
Malgrado l’opinione comune è che gli “anziani” siano un peso, io ascoltavo volentieri storie e aneddoti di chi aveva vissuto più a lungo, cercando di trarne benefici per la mia vita. E , in effetti, per molto tempo fu così.
Nello studio, nel lavoro, nelle relazioni applicavo gli insegnamenti dei miei nonni, mantenendo una mentalità propositiva e senza mai farmi abbattere dalle difficoltà.
Anche se possono sembrare lezioni scontate, al giorno d’ oggi non lo sono affatto. La staticità della maggior parte delle persone, consente ai pochi che si buttano di avere una incredibile quantità di occasioni.
Il sapersi inventare è davvero raro.
Crescendo però, iniziai ad ascoltare sempre meno i miei nonni. Dopotutto, anche se non paragonabile alla loro, avevo anch’ io maturato una discreta esperienza ed era ora di camminare con le mie gambe.
Inutile dire che non fu per nulla semplice, con gli anni arrivarono sia soddisfazioni sia delusioni, ma entrambe mi temprarono.
Il rapporto coi miei nonni maturò insieme a me, ormai era un rispetto tra adulti.
Era da poco iniziato un nuovo anno e iniziai a sentire strane voci su un virus.
Qualcosa di sconosciuto e particolarmente pericoloso.
Non era certo il primo virus di cui parlavano al telegiornale, ma per curiosità iniziai a documentarmi e le notizie erano controverse, poiché pareva avesse avuto origine in Cina e ero ben conscio di come le notizie fossero taciute o censurate in quel paese.
Tuttavia non trascorse molto tempo che il virus fosse sempre più protagonista nel mondo, sebbene i politici assicuravano fosse presente solo in Cina ed escludevano una diffusione in Occidente. Non ho mai dato retta ai proclami dei politici; avevo vissuto abbastanza da sapere che ormai agivano solo per interesse personale e non per il bene comune, quindi decisi di parlarne con tutta la mia famiglia, specie coi miei nonni, visto che gli anziani sembravano i soggetti più esposti al virus.
Dissi a tutti ciò che avevo saputo, mettendo all’ erta l’ intera famiglia. Il tempo mi diede ragione, perché da lì a poco, furono accertati i primi casi in Italia.
In pochi mesi il virus, battezzato Covid 19, si diffuse a macchia d’ olio, mostrando quanto l’ arroganza dell’uomo fosse diventata esagerata. Ogni paese cadde sotto la furia del contagio, ogni governo dovette ammettere i propri errori, ogni persona si ritrovò inerme davanti alla pandemia.
La situazione degenerò a tal punto che fu necessaria una quarantena globale.
Malgrado la crisi, i miei nonni insistevano nel fare di testa loro, convinti che dopo aver superato una guerra sapessero come affrontare un problema, e rispetto alle bombe inglesi, un virus fosse poca cosa.
Rimasi sorpreso dal loro atteggiamento, visto che furono loro ad insegnarmi ad ascoltare i consigli e gli avvertimenti altrui. Tentai in ogni modo di convincerli ad essere prudenti, ma a nulla valsero le mie parole.
Finché non accadde il mio peggior timore: i miei nonni si ammalarono.
Furono settimane di angoscia e di dolore.
Ormai l’estate era alle porte e il virus sembrava aver allentato la sua letale stretta.
Finalmente chiamarono dall’ ospedale.
Andai in macchina, ma non potevo essere contento. Erano stati ricoverati tutti i miei nonni, ed ora solo uno poteva far ritorno a casa.
Perché erano stati così presuntuosi? Per tutta la vita avevo dato loro ascolto, perché per una volta non hanno ascoltato loro me?
Purtroppo ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi…
Ora lo so. Non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi. Lui ne aveva, di capelli bianchi, pure in abbondanza ma questo non lo fermò dall’avvicinarsi a Valentina, una rossa sensuale piena di fascino anche se, data l’età, rimanevano le curve ancora da bambina e gli occhi verde smeraldo.
L’aveva vista la sera prima in un bar, aveva accavallato le gambe e dai pantaloni leggeri si erano intraviste le autoreggenti terminanti con un tacco dodici. Le si era avvicinato guardandola negli occhi ma Valentina aveva abbassato lo sguardo. Quell’aria da bambina, alla soglia dei cinquant’anni, la rendeva ancora interessante o per lo meno incuriosiva gli uomini a tal punto da avvicinarsi a lei.
Forse il lungo lockdown o forse la quarantena che Valentina aveva subito ammalandosi di Covid-19 avevano reso quell’incontro qualcosa di unico. Uscita dal bar l’aveva seguita fino al portone della sua abitazione per poi svegliarsi l’indomani e scoprire che lavorava in una farmacia. Per giorni interi andò lì quando finalmente, dopo sguardi e scambi di frasi, si decise ad offrirle un aperitivo a pranzo. Il semi lockdown della zona gialla non permetteva di consumare dopo le ore diciotto né tantomeno uscire dopo le ventidue, ma prima tutto o quasi tutto era possibile.
Dopo l’aperitivo seguì una passeggiata insieme e poi un pranzo in una giornata di intensa pioggia. Valentina parlava molto e gesticolava con le mani quasi all’unisono con la cadenza di colei che dirige un’orchestra. Lui le si avvicinò per baciarla ma lei, con il suo fare contraddittorio, si distaccò e poi lo baciò avidamente cercando di sentire l’odore negato dalla malattia che le aveva portato via i due sensi. Seguirono altri incontri sempre più lunghi a volte parlando a volte fermandosi nell’appartamento di Valentina accogliente quanto basta per far perdere la testa a un uomo.
Non si erano detti niente di personale, nessuno dei due conosceva l’altro, solo incontri fortuiti legati da un’attrazione senza risposta.
Trascorrevano serate brevi ma intense chiuse dal lockdown delle dieci.
Dopo quindici giorni, poco prima di Natale, lui le disse che doveva tornare in Lombardia, dove aveva una moglie e dei figli che lo aspettavano per le feste, ma che sarebbe tornato dopo la befana. Valentina strinse lo stomaco più forte che poteva; d’altronde era stata lei a non chiedergli niente, trascinata sempre dalla sua immancabile voglia di avventura.
– Va bene – disse Valentina cercando di non far tremare la voce. Non è necessario vedersi dopo le feste, non me la sento. E’ l’ennesima storia fasulla e come tale deve finire ora.
– Non voglio perderti Valentina, mi dispiace non avertelo detto prima ma temevo di rompere la nostra magia – le disse lui cercando di baciarla.
Valentina era ormai lontana. Quel distacco sapeva gestirlo benissimo e in fondo era lei che lo aveva assecondato in quel gioco così perverso fatto di illusioni e di momenti che non sembravano finire.
Lui scese le scale e si girò ancora una volta per guardare quella chioma in controluce mentre la pioggia continuava a bagnare le falde del suo cappello.
– Ti rivedrò – le aveva sussurrato in un orecchio scostandole i capelli, il gesto con cui lei era solita abbandonarsi a lui.
– Ed io, meschino – pensò lui camminando verso casa – che credevo di non potermi mai più emozionare, mi emoziono. Ma invece di lasciarmi andare costruisco faticosamente delle barricate, dei muri. Non devo, non posso, io, emozionarmi! Che fare? Lasciarsi andare è oramai impossibile, distaccarsi completamente non mi è più concesso, sono in balia dei pensieri contorti e capricciosi, si alzano, si fermano, si abbassano sto per tremare, ma il mio forte amor di sé neutralizza questo naturale istinto muscolare. Oramai è così, accada ciò che accada. Bella la vita… con te, anche se per un attimo soltanto.
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi.
Perché chi ha deciso di cedere alle proposte dei francesi -duole constatarlo- è stato proprio Ballarò. Quel Ballarò che cinquant’anni prima era stato deriso e dileggiato per aver venduto di punto in bianco il negozio preso in conduzione nemmeno ventenne, complice la precoce dipartita di entrambi i genitori.
Una rivendita alimentare, non tanto grande è vero, ma abbastanza da permettere a tutto la famiglia una vita serena a confronto di tante altre persone costrette in quell’epoca a farsi in quattro per mettere insieme pranzo e cena.
Gli anziani in piazza che se lo ricordano, parlano di un giovanotto dal fisico asciutto, una pertica d’un metro e novantadue, sempre trafelato, sempre di corsa tra garage di casa -dove nessuno sapeva in cosa si arrabattasse- e bottega, ma nonostante la furia, sempre disponibile a regalare un sorriso a chiunque. Animo dolce che emergeva anche quando qualche madre accompagnata dal figlioletto coi calzoni corti, arrivava al banco coi soldi contati e lui, leggendo tra quei quattro occhi l’imbarazzo e il desiderio, tirava fuori dal grande vaso di vetro lavorato posto in bella vista a fianco della cassa, un paio di caramelle confezionate singolarmente, regalando oltre lo zuccherino, cinque minuti di spensieratezza ad entrambi.
La leggenda vuole che tutto sia nato, come spesso accade, per caso.
La bicicletta con la ruota mezza sgonfia, il binario del tram che arriva allo scambio, lo pneumatico che non vince il disassamento tra uno e l’altro e voilà, il capitombolo è servito.
Giovanni Ballarò, bici in spalla e cerchio in mano, livido sul volto e con le mani sgraffignate, attraversa con lo sguardo basso via Bistolfi, si lascia l’istituto dei Martinitt alle spalle, entra nella corte della Boja e si infila in garage per rimettere insieme i cocci in qualche modo.
Tutto quadra, fuorché la dinamo che non ritrova lo spazio originale, ma finisce distrattamente sul banco.
Nessuno avrebbe immaginato che da quel banco e da quella dinamo, sarebbero nate le prime batterie ad uso industriale. Quel sistema piombo-acido, rinnovato nella struttura elettrodica, capace di generare uno spunto ineguagliabile per qualsiasi concorrente.
Il resto è storia: il primo stabilimento al quale susseguono un secondo e un terzo nel giro di pochi anni. Il contratto con la Ferrero, seguito da quello De Ponti. Dai 13 dipendenti iniziali, ai quasi 300 degli ultimi anni. La bottega diventa industria, ma Giovanni, quello spilungone, rimane sempre lo stesso.
In mezzo secolo Ballarò, nonostante la crescita inarrestabile foriera di agiatezza e potere, rimane il Giovanni dal cuore grande, sempre pronto a dare qualche caramella a chi sa di non potersela permettere e dignitosamente non la chiede.
Eppure c’è chi dice che sapeva come sarebbe andata, chi che l’ha fatto per coprire una buco nelle finanze, chi da la colpa ad una donna di cui si sarebbe infatuato, chi incolpa i nipoti, chi arriva a pensare sia stato circuìto da una setta.
In quattro anni dei trecento dipendenti ne sono rimasti 42, gli stabilimenti ceduti a un grosso immobiliarista interessato a sviluppar verso l’Ortica, gli impianti trasferiti.
Delocalizzazione. Questa la parola magica contro la quale nulla si è potuto fare.
Produzione in Polonia, uffici in Italia, giusto per mantenere il “made in Italy” almeno nella distribuzione. Con Ballarò parlavano di sinergie, di partnership, di competitività globale, di fusioni, di filiera, di opportunità.
Un’imprenditore romantico, rispettoso della vita, umile al punto di mangiare spesso in mensa insieme alle proprie maestranze, che non ha mai negato un sorriso all’ultimo degli ultimi.
Non centrano donne, nipoti, sette, buchi: semplicemente si sbagliava.
Ballarò non ha più le caramelle, gliele hanno rubate i francesi.
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi… nessuno rideva mentre l’eco della frase appena pronunciata da Andrea continuava a risuonare in un silenzio che si faceva sempre più pesante.
Stavano tutti lì impalati nella stanza, con le finestre chiuse e la puzza di bruciato.
Erano al circolo, come tutti i martedì e fra un rombo di catarro e una bestemmia, fino a quel momento la mattina era passata centoventi punti alla volta. Il torneo di briscola chiamata era un appuntamento immancabile per ogni pensionato che si rispetti, anche perché la coppa della vittoria, in un paese di tremila anime, valeva più della nomina a sindaco.
L’unico giovinotto (così si riferivano a lui gli avventori) era Andrea, il barista che aveva preso in gestione il bar da qualche mese. Abituati alla sciura Pina che per oltre mezzo secolo aveva servito campariinduecolbianco e caffè corretto sambuca ai giocatori, questa nuova figura non era entrata esattamente in simpatia. Non che avesse fatto niente, ma era nuovo e ai forestieri un po’ bisogna farlo penare il saluto.
Fatto sta che l’unico ritrovo era quello e, Pina o no, visto che i prezzi, gli orari e la briscola erano rimasti gli stessi, andava bene così, non c’era motivo di cercare un altro posto. In più si poteva parlar male di quello nuovo che il Campari non è più buono come prima e di questo passo dove andremo a finire.
Faceva freddo, molto freddo per essere autunno. Il riscaldamento arrivava da una stufetta elettrica gentilmente messa a disposizione dalla parrocchia. Era silenziosa e faceva il suo, però seccava l’aria. Al suo tempo la sciura Pina aveva trovato l’esatta posizione della finestra che consentisse all’aria di circolare e alla stanza di non raffreddarsi troppo. Che brava la Pina, non come questo nuovo che non si accorge che è troppo chiusa e qua fa caldo.
“Derva quella finestra lì, su!”
Fuori i colori dell’autunno si facevano sempre più intensi, mentre gli alberi iniziavano la loro ritirata verso l’inverno. Le foglie gialle e secche penzolavano in attesa dello stimolo giusto per proseguire il loro ciclo.
Arrivò per una di loro che saltò, e ondeggiando nell’aria secca e fredda di quella mattina settembrina, continuò a pendolare, scendendo sempre più fino a trovarsi ad essere l’innesco di quello che sarà ricordato da tutti i giocatori come “quel martedì”.
Se non fosse accaduto sarebbe stato impossibile immaginarlo, ma successe che la foglia andò a incastrarsi tra le fessure della stufetta e lì rimase, perché troppo pesante per essere spostata dal mite flusso di aria calda.
Il calore fece il suo, l’autunno aveva già fatto il resto e la foglia si incendiò. Persa parte della sua forma fu abbastanza leggera per essere soffiata, accesa, dentro alla scatola della carta, che era lì perché il giovinotto del bar voleva la raccolta differenziata.
In quel momento Andrea non era al bancone e nessuno si accorse delle fiamme che un po’ alla volta crescevano, finché il signor Guido, i suoi novant’anni e i suoi pochi capelli bianchi tutti sulla cima della testa, non si alzarono in modo decisamente troppo vispo per quella che era la situazione che tutti stavano vivendo.
Camminò verso le fiamme e passando accanto alla finestra la chiuse. Poi prese la giacca che era appoggiata sul tavolo e la mise sopra il principio di incendio, nel tentativo di soffocare le fiamme.
Sollevò un lembo dell’improvvisata coperta per verificare che il pericolo fosse sfumato, e come la foglia era volata poeticamente nella stufa, così l’ultima fiammella sgorgò dalla sua gabbia, andando a cercare l’ultima testimonianza di quella che fu una folta chioma.
Andrea rientrato, aveva preso l’estintore, ma quando tolse la giacca constatò che la fiamma era già spenta e guardando la testa ora glabra del Guido, sorridente se ne uscì con “Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi”. La risata del signor Guido e l’offerta di un giro per tutti i presenti sciolsero la tensione del momento e da quel giorno, anche al barista fu riservato l’articolo davanti al nome, come si usa per quelli che si conoscono.
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi. Ma lascia che ti racconti questa storia dall’inizio…
Nascevo una mattina di un Dicembre imbiancato di neve, tanto tempo fa. Il mio villaggio era piccolo e popolato da anziani. Io, unico bambino, crebbi circondato da capelli candidi e lunghe barbe incanutite. Chi mi raccontava storie, chi mi rimproverava le avventatezze infantili e chi mi insegnava la gentilezza. Per tutti ero “il giovane Nic”. Io non potevo far altro che ammirare la vasta esperienza dei più vecchi e sognare giochi e marachelle con i miei coetanei.
E poi gli anni passarono, gli occhi velati di chi mi aveva visto crescere si erano chiusi su altri mondi ed io ero rimasto solo.
Una mattina vagavo per un bosco in cerca di legna, quando incontrai un ometto di bassa statura. Mi chiese perché fossi lì “nel loro bosco” ed io gli confessai la mia motivazione ma rimasi sorpreso dalla parola “loro”. Non ebbi tempo di chiedere spiegazioni perché un gran sorriso si allargò sul suo faccino appuntito senza età: “Prendi pure quello che ti serve, non di più, non di meno”. E io tagliai tanta legna quanta effettivamente necessitavo per scaldarmi quell’inverno.
Quando la primavera fece capolino con i primi fili d’erba tra i ghiacci, era giunto per me il momento di trovare altre persone e nuovi amici. Costruii un carro per cercare il villaggio più vicino. Ma chi l’avrebbe trainato?
La soluzione si presentò un giorno, quando vidi una renna avvicinarsi alla mia casa. Uscii per catturarla ma quella scappò via. La seguii fino al bosco in cui ero andato a far legna tempo prima ed ecco là il buffo ometto. “Per quale motivo vieni ancora nel nostro bosco?” chiese. Di nuovo rivelai candidamente le mie intenzioni. Al che, egli rispose: “Porta con te gli animali che ti saranno amici utili, né di più, né di meno”.
E io così feci: condussi con me la renna, la addomesticai e con lei a trainare il mio carro, raggiunsi il villaggio più vicino. Finalmente! Uomini, donne, vecchi e bambini; la compagnia non mi mancò più e io scordai il bosco e il buffo ometto dal viso appuntito.
Gli anni passarono, la mia barba crebbe lunga e i capelli s’imbiancarono come quelli di chi mi aveva cresciuto. Io ero diventato per tutti “il vecchio Nic”.
Ed il più lungo e il più gelido inverno di cui si abbia memoria arrivò. Il cibo scarseggiava e il villaggio era ormai allo stremo. Decisi, allora, di partire con il mio carro e la mia renna e andare ancora una volta in quel bosco dove ogni mio desiderio era stato esaudito.
Quando arrivai, l’ometto stava trascinando a fatica un grosso sacco di patate. Mi offrii di aiutarlo e, issato il sacco sul carro, ci dirigemmo verso la sua destinazione: un paese di ometti alti quanto lui e con lo stesso viso appuntito senza età, per ringraziarmi, mi donarono altri sacchi di patate e grano. Tornai al villaggio dove la festa fu grande: mangiammo tutti insieme, attorno ad un grande falò acceso nella piazza principale.
Molti anni trascorsero ancora e il villaggio prosperava così come la mia pancia. La povertà era solo un ricordo lontano ma comunque presente: ogni inverno al centro della piazza, innalzavamo un albero decorato da mille luci fiammeggianti come il falò di quella sera.
Da allora non incontrai più i miei piccoli amici. Fino all’altro giorno. Furono loro a venire da me: “Se tu e il tuo villaggio non avete più bisogno delle nostre cose, non vuol dire che qualcun altro non ne abbia. Da qualche parte, nel mondo, ci sarà sempre il desiderio di qualcosa”. L’osservazione mi colpì. Credevo che il passare degli anni mi avesse reso saggio e invece c’era ancora molto che mi sfuggiva. E lì presi la decisione: io, la mia renna e il mio carro avremmo portato in giro per il mondo ciò che le persone desideravano.
Così iniziava questa mia ambiziosa avventura che mi ha portato qui, dove sono ora, a testa in giù, dopo essere scivolato sul tetto di casa tua. Lo so, una scelta per nulla saggia vista la mia stazza e sicuramente ti starai chiedendo cosa ci facessi lassù. Ebbene, ho pensato che sarebbe stato meglio portare a ogni persona il proprio regalo in anonimato, per non ricevere richieste infinite. “Solo quello di cui hai bisogno, né più né meno”.
E ora, mio caro amico, mi aiuteresti a uscire dal tuo camino?
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi.
E’ una notte buia e tempestosa. Nonostante ciò, sono pronto ad uscire a fare una passeggiata; molto probabilmente rimarrò sveglio anche oggi in attesa delle luci dell’alba.
Questo ormai si ripete da innumerevoli settimane, dal giorno in cui ricevetti quella telefonata. La cornetta del telefono è rimasta nella stessa identica posizione in cui la lasciai quella sera, ormai uno strato di polvere visibile all’occhio nudo la ricopre interamente.
I rubinetti del bagno sono costellati da residui di sputi e dentifricio e una delle lampadine della specchiera si è fulminata. I panni sporchi strabordano dalla cesta di vimini dove vi alloggiano la biancheria e le magliette impregnate di sudore, per via degli incubi che accompagnano le mie recenti notti. La cucina verte in uno stato pietoso, i fornelli li utilizzo solo per il caffè, bevanda salvifica, per il resto mi nutro di cibi precotti scaldati al microonde.
La radio è rimasta accesa da quella sera, ricordo perfettamente quel momento: poco prima mi rilassavo sul sofà ascoltando il discorso di fine anno del Presidente della Repubblica. Me lo immaginavo davanti a me: un uomo distinto, con indosso un elegante completo blu che risalta la sua chioma argentea, intento a tirare le somme di quell’anno passato cercando di rassicurare gli animi della gente ed augurare un futuro prospero. “…Diamo attenzione ai più giovani, che aiutati dalla saggezza di quelli più anziani possano compiere scelte consone e portare avanti al meglio le sorti di questo Paese”. Appena il Presidente finì questa frase, lo squillo del telefono riecheggiò nella stanza vuota; le parole che sentii poco dopo riecheggiarono nella mente per giorni, lo fanno tutt’ora, incessantemente, non mi lasciano tregua.
Seguo lentamente il sentiero nel bosco, quasi completamente cancellato dal fango generato dalla pioggia incessante di quei giorni. Sento le scarpe inzupparsi e il mio passo farsi sempre più pesante, i piedi sprofondano nella terra e il mio corpo inizia piano piano a mimetizzarsi con tutto ciò che mi circonda.
Mi sembra di camminare da ore o forse giorni, dentro questa strada impervia e faticosa ho perso il passare del tempo, nulla ha più importanza; ad ogni passo lascio indietro qualcosa di me che raccoglierò al ritorno.
Non so che ore siano ma il bosco di fronte a me si sta diradando, diventa meno fitto, la strada più dolce e improvvisamente davanti ai miei occhi gli arbusti spariscono e hanno lasciano spazio ad un’ampia veduta. La valle sottostante è immensa, le luci delle case e delle strade sembrano microscopiche e brillano come tante decorazioni natalizie. Ascolto il mio respiro rallentare e il cuore smette di sobbalzare, erano giorni che un nodo alla gola non permetteva all’aria di passare, mi sentivo costretto, intrappolato.
Resto stupefatto dalla splendida vista, mi siedo su una grande pietra ad ammirare la luna bianca e luminosa. Ha smesso di piovere.
Ho 43 anni, una folta chioma riccia e castana, ma nonostante questo so perfettamente qual è la decisione più saggia da prendere.
Scappare.
Inizio a correre a perdifiato giù per la valle, cerco di schivare le radici degli alberi, i cespugli e i massi. Una lepre spaventata cerca di nascondersi ma non trovando rifugio rimane impietrita proprio davanti a me, con un salto la evito e continuo la corsa.
Sento gli occhi bruciare per il sudore salato che cola dalla mia fronte, i polpacci attraversati da forti fitte di dolore e il respiro che inizia a farsi sempre più corto.
Nella mia testa è chiara e vivida l’idea di andare e non tornare più, di far perdere ogni mia traccia, una nuova esistenza, solo mia, per ricominciare a vivere davvero.
Ora lo so: non è sempre vero che le scelte più sagge le compie chi ha i capelli bianchi…Eppure era così convincente. Tutti quella sera rimasero come inebriati dal suo racconto. Alla fine dell’incontro cercai di raggiungerlo facendomi largo tra il pubblico che, come me, avrebbe voluto anche solo toccargli una mano. Nell’avvicinarmi la folla divenne un muro e rinunciai. Rimasi comunque in fondo alla sala per qualche minuto, come per riprendermi da quello che avevo visto e sentito.
La mattina dopo la mia giornata riprese come era finita la precedente. La vita in campagna è sempre uguale a sé stessa. Lo scorrere delle stagioni, la messa della domenica, la festa patronale, gli stessi amici conosciuti a scuola con cui vedersi tutti i sabato sera nell’unico bar del paese. Giulia era stata una mia compagna delle elementari. Come nel gioco della sedia ci siamo fidanzati…prima che le sedie finissero. Non ricordo di aver mai scelto di sposarmi, avere una famiglia, i figli, la casetta di fianco ai suoceri.
Quell’incontro mi aveva aperto gli occhi facendomi conoscere luoghi lontani, storie e persone che non immaginavo nemmeno esistessero. La mia vita sembrava così piccola nella sua quotidianità scandita solo dalla pioggia, dal sole, dalla nascita di un vitello o dalla mietitura del grano. Non volevo più finire la mia esistenza come i miei genitori, che ancora oggi quando mi incontrano mi chiedono dov’è la mamma o il papà.
Avevo tenuto il volantino di invito dove era indicato un numero di telefono da contattare per informazioni o curiosità.
Non avevamo il telefono in casa e raramente ci capitava di avere la necessità di chiamare qualcuno senza dovergli bussare alla porta. Tre volte alla settimana però dovevo portare il latte al consorzio. Lungo la strada c’era una cabina a gettoni, mi sarei fermato lì per chiamare. Per giorni non rispose nessuno alle mie chiamate. Avevo quasi rinunciato quando una voce di donna alzò la cornetta. Non ero pronto alla risposta. Cercai di formulare qualcosa che somigliasse anche solo vagamente ad una richiesta di informazioni, quando una voce maschile mi chiese nuovamente chi fossi. Era lui. Mi disse che in quel momento era molto impegnato e decidemmo per successivo un appuntamento telefonico.
Non volevo arrivare in ritardo, anche se quel tragitto non era che di pochi chilometri. Temevo di incontrare qualcuno che, raccontandomi inutili storie sui parassiti del granoturco o sull’organizzazione della sagra della fava, mi avrebbe potuto trattenere. Per la paura che qualche militare di passaggio avesse potuto occupare la mia cabina attesi l’ora convenuta chiuso all’interno della cabina stessa, con il sole a picco e le tasche piene di gettoni.
Come da istruzioni ricevute, avevo portato una matita ed un foglio sul quale segnai ogni sua indicazione.
La mattina dopo salutai tutti senza dire nulla della mia partenza, mia moglie rimase solo stupita dalla carezza che le diedi sui capelli. Fissai a lungo i miei figli, andai a salutare i mei genitori e partii con quello che riuscii ad infilare nel mio vecchio zaino militare.
Quel vecchio dai capelli bianchi fu il mio mentore per i 2 anni successivi. Partendo dalla Tunisia e passando per l’Africa siamo arrivati in India. Vedere un elefante mi sembrò come aver vissuto mille vite. Ogni luogo era il perfetto inizio di una nuova esistenza. Nessuna responsabilità, gli errori e le paure venivano abbandonati insieme al luogo che lasciavamo. Ogni giorno incontravamo persone con le quali sembrava di essere come fratelli di sangue.
Poi una sera scoppiai a piangere. La verità era che non avevo più nulla. Per ingannare la malinconia che sentivo avrei dovuto viaggiare senza nemmeno sostare, trovare posti ancora più lontani e sconosciuti. Ma sapevo che sarebbe arrivato il giorno dove nulla poteva ingannare quella mancanza. Viaggiare è solo una illusione, se non hai una casa dove tornare.
Tornai in un immobile pomeriggio afoso. Mia moglie quando mi rivide non pianse. Lo fece molti giorni dopo senza che io me ne accorgessi, piangeva come se stesse ringraziando qualcuno. I miei genitori prima di abbracciare me si abbracciarono tra di loro.
I miei figli mi chiamarono subito papà. Non avevano bisogno dei capelli bianchi per amare il loro padre, come se quei 2 anni non fossero mai esistiti.
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