19 – Tzunami

25 Nov di editor

19 – Tzunami

Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi…

Lorenzo, mi aveva svegliata con una coccola. Un girasole e un caffè a letto uniti ad un bacio appassionato.

Una banalità che mi diede grinta in un periodo travagliato. Mi aveva stupita. Non succedeva da tempo, troppo.

Negli ultimi mesi era distante, silenzioso, ingabbiato nei suoi fantasmi legati a problemi lavorativi e alla sua costante insoddisfazione. Aveva compreso di non poter perseguire la carriera auspicata.

Sarebbe potuto essere un giorno come tanti.

Non avrei mai pensato di ricordarlo così vividamente.

Mi basta chiudere gli occhi per essere catapultata al 9 aprile 2018, ore 8:06.

Stavo andando in ufficio quando, in dieci secondi, la mia vita è stata capovolta.

Un colpo forte, inatteso, travolgente.

Non compresi subito l’accaduto contrariamente a coloro che si trovavano dietro me.

Loro avevano chiara l’immagine, la sequenza, il movimento. Avevano assistito allo tzunami, che mi aveva travolta.

Pioveva. Una pioggerellina leggera che gli inglesi avrebbero, nel loro fare snob, definito shower. Ricordo che le gocce mi infastidivano, portandomi a coprirmi col cappuccio del Woolrich rosso col pelo di volpe.

Stavo attraversando la strada, semaforo verde.

Zaino sulle spalle, auricolare all’orecchio.

Ascoltavo con poca attenzione le parole di Lia che si lamentava sui massimi sistemi.

“Che palle” pensavo dando poca attenzione alle parole.

Ero concentrata sulla strada.

Seguivo la folla.

Dinnanzi a me un bambino con la madre, dietro una signora col cappello verde.

Camminavo. Le auto erano ferme alla mia destra e alla mia sinistra.

Testa bassa e nervosismo. Camminavo.

Non mi ponevo domande, seguivo mamma e figlio.

Poi, un colpo.

Mi ritrovai per terra.

Il telefono mi volò dalle mani, ero sull’asfalto.

Immobile. Non riuscivo a muovermi. Non capivo se avessi paura.

Sentivo bagnato.

Un’unica sensazione.

“Mi sono pisciata addosso”, pensai.

No. Era il sangue che scendeva dal viso.

Misi la mano in faccia. Diventò rossa.

La pioggia cadeva. Più intensa.

Poi, vidi un casco a circa due o tre metri da me.

Guardai avanti, un bambino era in piedi, urlava spaventato.

Dieci occhi preoccupati mi chiudevano la visuale.

Non riuscivo a muovermi. “Oh cazzo” pensai.

Mi aiutarono.

La gamba non mi reggeva.

Mi presero in braccio senza fatica.

Mi misero in un’auto.

Non piansi.

Cercavo di capire se mi stesse venendo sonno.

Sebbene non sapessi nulla di primo soccorso ero consapevole che la mancanza di sonno fosse sinonimo di assenza di trauma cranico.

Nel giro di dieci minuti mi ritrovai su un’ambulanza.

Sentivo un grande dolore riconducibile alla lastra di legno su cui mi avevano immobilizzata per portarmi al PS.

La mia attenzione si pose sul telefono. L’avevo in mano. Era il mio unico possibile mezzo di comunicazione.

Da poco ero a Roma da Lorenzo. Non conoscevo nessuno.

Mi ritrovai in un PS dove vedevo persone che erano in attesa da ore.

Sapevo che mi ero fatta tanto male.

Non sentivo dolore.

Il mio pensiero volò a casa, a mamma e papà, a 600 km da me.

Mi sentivo sola come un cane, ma sicuramente meno di loro che si sarebbero sentiti il pavimento disgregarsi sotto i piedi.

14.25, non mi avevano ancora fatto la lastra.

Con fatica contattai Lorenzo, alle 16.32 mi fecero i raggi.

No trauma cranico. Tutto il resto maciullato.

“Cazzo” pensai, ma ero viva. Il cervello c’era.

Mi dovevano mettere in trazione.

Non sentivo dolore.

Dovevo chiamare casa.

Avevo paura. Per loro. Non per me.

Presi l’iPhone, chiamai casa.

Tre squilli, poi la voce di casa, amore.

La voce di mio padre disse “Eh finalmente”.

Lo bloccai, fui sentenziale.

“Papà ho avuto un incidente. Mi hanno investito, sono viva. Nessun trauma cranico. Ho la gamba rotta.”

Presi fiato e continuai “Mi stanno curando. Sono bravi. Mi affido a loro.”

Sentivo male per farli soffrire. Questo era il vero dolore.

“Ok”. Mi rispose. Il suo “ok” mi diede fiato.

Sapevo che era fatto di paura e di lacrime inghiottite, mi diede coraggio.

Mi misero in trazione. Mi sedarono.

Mercoledì mattina mi svegliai.

Una gamba in alto e le urla di una anziana che si era rotta il femore.

5:43 minuti.

Mio padre era a Roma da me.

Sorrisi.




3 Commenti

  1. Il ritmo della narrazione è eccessivamente spezzettato. L’obiettivo delle frasi brevi e delle continue interruzioni può essere quello di trasmettere l’ansia della protagonista e la concitazione del momento, ma alla lunga rende la lettura difficoltosa e ripetitiva.
    La scrittura è spesso imprecisa e poco curata.

  2. Un espediente narrativo originale,; interessante il fatto che venga impiegato per descrivere in modo serrato l’evento forte della giornata che viene ricordato. Stonano un po’ due periodi lunghi all’interno di questa parte (“Sebbene non sapessi nulla di primo soccorso ero consapevole che la mancanza di sonno fosse sinonimo di assenza di trauma cranico.”;
    “Sentivo un grande dolore riconducibile alla lastra di legno su cui mi avevano immobilizzata per portarmi al PS.”), tanto più che non aggiungono nulla di rilevante alla narrazione…
    Sarebbe stato forse più utile mantenere netto il distacco stilistico fra l’esordio piacevole, narrato in modo disteso e pacato, e il racconto dello “tzunami” .
    Apprezzabile il fatto che riesca ad emergere il senso di solitudine e la mancanza di affetto provata dalla protagonista e, di contro, la profondità del legame con i genitori. Un po’ strana la totale assenza del fidanzato…
    Una frase scorretta: “Sentivo male per farli soffrire”. Il PER così posizionato ha valore finale (con l’obiettivo di…) e ovviamente non era quello il senso. Andava aggiunto un nesso esplicativo (“per il fatto di”… ) oppure il concetto andava espresso diversamente (“perché li stavo facendo soffrire…”; “per il modo in cui li facevo soffrire”; “per la sofferenza che causavo loro”…)
    “Mi sentivo sola come un cane, ma sicuramente meno di loro che si sarebbero sentiti il pavimento disgregarsi sotto i piedi.”: un concetto errato… Il confronto non sta in piedi: la protagonista si sente sola, i genitori si sarebbero sentiti addolorati, preoccupati… Quel “meno di loro” non regge.

  3. Testo ben scritto, scorrevole nella sua essenza semplice e nello schema di svolgimento comprensibile ed organizzato.
    La descrizione rende la dinamica dei fatti e ispira la fantasia a scavalcare il tempo ed a immergersi nella capitale anno 2018.
    Suggestivo il momento dell’incidente, il mezzo intorpidimento, il senso dell’improvviso addosso che cala il sipario sulla scena della camminata nelle strade romane e assale la protagonista insieme al lettore.
    Poi il vuoto, l’impatto, il sangue in silenzio che donano ritmo e un po’ di suspense alla narrazione. Significativo l’approfondimento del dramma vero, verso la fine, quello della comunicazione del dolore, di dover dare la notizia agli affetti e sentire una sofferenza reciproca trattenuta dal padre dietro la recita di un <> quasi sussurrato.

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