18 – La seconda casa

24 Nov di editor

18 – La seconda casa

Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore dei modi, nonostante la devastante nottata precedente.

Mi svegliai aspettandomi un mal di testa lancinante dovuto alle poche ore di sonno e alla crisi di pianto avuta la sera prima, quando mi ero presentato a casa del mio migliore amico spiegandogli che mio padre mi aveva sbattuto fuori intimandomi di non farmi più vedere. O forse dovrei dire il mio patrigno, dato che quell’uomo aveva sposato mia madre qualche anno prima in seconde nozze e mi aveva odiato fin dal primo istante. Mia madre però non riusciva a tirare avanti da sola e poichè lui non aveva mai alzato un dito su di me, limitandosi all’abuso verbale, lei credeva che dopotutto la situazione non fosse così grave. Avevo quasi diciott’anni e presto me ne sarei andato al college, lontano. Un problema in meno per me… e per loro.

“Ehi, sei sveglio?”

La voce di Jack mi destò dai miei pensieri. Era in piedi vicino alla porta della stanza degli ospiti, già vestito, con in mano una tazza di caffè bollente che mi porse. “Ho parlato con i miei. Puoi rimanere qui finchè vuoi. Mio padre ha detto che parlerà con i tuoi, così non devi incontrarli faccia a faccia se non ti va.”

Provai immediatamente un forte moto di gratitudine nei loro confronti. I genitori di Jack, Mr. e Mrs. Morrison, erano persone favolose che mi avevano sempre trattato come un figlio: trascorrevo quasi più tempo a casa loro che dai miei, fin da quando Jack ed io frequentavamo la scuola elementare.

Ma non potevo imporre la mia presenza in quel modo.

“Grazie… ma dovrei tornare prima o poi. Credo che ora si sarà calmato.” Non pronunciavo mai le parole mio padre riferite a quell’uomo, perchè non era tale. Nemmeno per un minuto l’avevo mai percepito in quel modo.

“Chris, non è un problema, sul serio. Puoi fermarti quanto vuoi.”

Ero tentato, in realtà. Ma mancavano ancora due mesi alla fine del liceo, poi c’era l’estate, e poi l’università. Non potevo rimanere così a lungo da loro.

Ma se solo avessi saputo cosa mi avrebbe aspettato a casa al rientro non mi sarei mosso da casa Morrison.

Quell’uomo non diede segno di essersi accorto della mia presenza quando entrai in soggiorno, un paio d’ore più tardi. Mia madre sedeva sulla sua poltrona preferita ed era intenta a sferruzzare all’uncinetto, il suo solo e unico passatempo, e aveva un occhio nero.

Non era una novità. Ma non accadeva nemmeno spesso. Quante volte le avevo chiesto di lasciarlo? Ovviamente venivo sempre sistematicamente ignorato da lei.

“Christopher, dove sei stato?” chiese mia madre, alzando a malapena lo sguardo dal suo ricamo, forse in imbarazzo per la propria condizione, o forse per la mia.

“Dove vuoi che sia stato? Da Jack,” risposi piccato, come se già non lo sapesse. Era la mia seconda casa e anche quella dove avrei voluto nascere e crescere, con genitori affettuosi e presenti.

“Non ti avevo detto di non rimettere piede qui?” Lui si alzò in piedi, fissandomi con astio, come se fossi una presenza malevola che contaminava tutto ciò che si presentava sul suo cammino. “Prendi la tua roba e vattene.”

Osservai mia madre con la coda dell’occhio. Continuava a sferruzzare.

Non potevo credere che davvero le importasse così poco di me.

Ma potevo percepire la stanchezza che emanava da ogni poro.

“Va bene. Tra un’ora sarò fuori di qui.”

Salii al piano di sopra e iniziai a fare i bagagli.

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“Chris?”

Sorrisi appena, indicando i borsoni alle mie spalle, vicino all’ingresso. “Dopotutto mi piacerebbe rimanere. Contribuirò alle spese col mio lavoro part time.”

La madre di Jack sorrise e mi avvolse in uno degli abbracci più caldi, un abbraccio materno, dolce e profumato. “Non ce n’è bisogno. Bentornato a casa.”




3 Commenti

  1. A mio giudizio non si tratta affatto di una giornata iniziata nel migliore dei modi: è invece la diretta evoluzione di una giornata disastrosa da poco conclusa e il preambolo a nuove difficoltà, fino a una risoluzione positiva. In un certo senso questo racconto procede quindi al contrario: una giornata iniziata male, che alla fine si conclude positivamente.

  2. Un esordio che promette qualcosa…ma poi non lo mantiene. La trama è sviluppata in modo un po’ sbrigativo…. Lo spazio narrativo è limitato, ma proprio per questo bisogna creare un interesse velocemente, con qualche elemento originale. Il lieto fine arriva troppo rapidamente e risulta un po’ “facile”, oltre che alquanto irreale; ci sono troppi argomenti appena sfiorati (la violenza del patrigno sulla mamma, l’indifferenza della mamma, la severità intransigente e cattiva del patrigno verso il figliastro…).
    Un brutto errore grammaticale: “avrei voluto nascere e crescere”….: peccato!

  3. Racconto semplice ma tristemente attuale nella sua essenza che ripercorre l’eco intima della violenza domestica accresciuta dalla solitudine, e poi dal silenzio, che rimbombano in tutta la storia e la attraversano: i sentimenti del protagonista si fanno sentire. Sono vivi accanto alla rassegnazione muta della madre. Ma il lieto fine è forse un segnale di speranza: non ovvio né scontato. Lessico e grammatica sufficientemente corretti, poche le descrizioni e i particolari a favore invece dei dialoghi tra i personaggi: i colloqui sobri ed informali e l’uso del discorso diretto, il linguaggio dell’accoglienza che vince sull’abbandono.

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