16 – FORMICHE
Ricordo bene: quella giornata iniziò nel migliore del modi, mi svegliai circondata dal profumo di plumcake che la sera prima avevo preparato in vista della colazione, dalla tapparella filtrava una luce fioca, il braccio che avevo lasciato fuori dal piumone per tutta la notte era gelato e sentivo il gatto fare le fusa ai miei piedi.
Luca era già uscito per andare al lavoro, occupai anche la sua parte di letto, è una delle cose che mi piace fare quando rimango sola, riconquistare i miei
spazi, mi ricorda quando vivevo da sola nel minuscolo monolocale in Porta Romana. Guardai la sveglia frettolosamente e mi rigirai verso la finestra, stava piovendo. Erano le 8.32, improvvisamente realizzai che era molto tardi e che evidentemente la sveglia non era suonata.
Mi catapultai fuori di casa in circa 15 minuti, prima di mettere il piede fuori
dall’uscio mi resi conto che Luca prima di uscire aveva lasciato il tavolo pieno di briciole, ma ormai era troppo tardi per sistemarle.
Non avendo trovato l’ombrello, indossavo una mantella gialla molto buffa che catturava gli sguardi divertiti di molti passanti. Quella mattina non solo non avevo trovato l’ombrella ma, non trovando neanche un taxi libero, iniziai a correre verso la fermata del tram. Seduta davanti a me una ragazza sulla quindicina fissava il mio impermeabile, ormai completamente fradicio, dal quale scendevano lentamente delle goccioline di pioggia, io incurante continuavo ad ascoltare gli Smiths nelle cuffiette.
Arrivata davanti all’ufficio mi ricordai il motivo per cui, quella mattina, la mia sveglia non era suonata, quel giorno il mio ufficio era chiuso per “problemi tecnici”, così diceva il cartello che campeggiava tra gli avvisi sulla bacheca all’ingresso.
Milano era brulicante di persone, colorata dagli ombrelli e bagnata dalla tipica pioggia autunnale, quella che la mia nonna chiamava “la brûma”, quella che ti bagna anche se hai l’ombrello e ti ritrovi con i capelli gonfi e i pantaloni fradici appena metti il piede fuori casa.
Rientrai a casa a piedi, passeggiando per le vie della mia città, stanca feci i miei soliti quattro gesti quotidiani: aprii la porta, appoggiali le chiavi di casa nello svuotatasche, salutai il gatto e andai verso il frigorifero per bere un bicchiere d’acqua.
Lì, sul piano della cucina vidi una vera e propria invasione di formiche, camminavano disordinatamente alla ricerca di qualche briciola dimenticata e ne trovarono tante, visto il disastro che aveva lasciato Luca. Probabilmente una formica accortasi del lauto bottino chiamò alla carica l’intero formicaio che in questo momento campeggiava sul piano della mia cucina.
Scoppiai a piangere, le formiche sono la mia unica vera fobia, iniziai a tremare, il respiro si fece corto e il senso di nausea cominciava a fare capolino. Ero troppo arrabbiata per chiamare il colpevole di tutto questo disastro così quando Luca tornò dal lavoro mi trovò seduta sul divano che fissavo la cucina con la ChanteClair in mano.
“Ma sono solo formiche!”
“No, mi fa orrore avere delle formiche nella mia cucina, le detesto!”
Passammo la notte ad uccidere formiche, io cercavo di debellarle facendole annegare nello sgrassatore e Luca rideva guardandomi.
Dopo una lunga lotta la nostra cucina tornò libera e pulita, noi ci sedemmo sul divano e cademmo in un silenzio malinconico, le nostre mani si intrecciarono e le mie erano molto più fredde delle sue. Luca mi avvolse la coperta e si accoccolò sul mio petto.
“Tra una settimana vado via, se dovessero tornare le formiche dovrai ammazzarle da sola”
“Non ci saranno più…”
“Non ci sarò neanche io…”
Silenzio.
Lì, in quell’istante, mi resi conto di avere una fobia ancora più grande delle formiche.
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